martedì 14 settembre 2021
La scrittrice parla del poeta ebreo ungherese morto nei lager e citato domenica dal Papa in Ungheria
La scrittrice Edith Bruck nella sua casa romana con papa Francesco

La scrittrice Edith Bruck nella sua casa romana con papa Francesco - Vatican Media

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«Penso con commozione anche a tante figure di amici di Dio che hanno irradiato la sua luce nelle notti del mondo». A Budapest, nel mezzo di un Europa sempre più smemorata, dove mezzo milione furono gli ebrei deportati durante la notte del totalitarismo della barbarie nazista, papa Francesco ha voluto farne memoria attraverso l’opera di un grande poeta ungherese: Miklós Radnóti, «la cui brillante carriera – ha detto il Papa ai rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e di alcune comunità ebraiche dell’Ungheria – fu spezzata dall’odio accecato di chi, solo perché era di origini ebraiche, prima gli impedì di insegnare e poi lo sottrasse alla famiglia».

Seduta sul divano bianco della sua casa romana a due passi da Piazza di Spagna, in quella stessa stanza che a febbraio scorso aveva accolto papa Francesco, Edith Bruck ascolta in silenzio quanto il Papa afferma in questo viaggio nel suo Paese di origine e sul poeta dalle sue stesse radici ebraiche. Per il suo Pane perduto da testimone della Shoah, Edith Bruck ha ricevuto da poco il premio Viareggio e di Miklós Radnóti è traduttrice in italiano di una raccolta di versi.

Con la saggezza delle sue novanta primavere, ascolta così ancora quanto il Papa prosegue a dire di questo suo fratello poeta ungherese: «Nell’abisso più oscuro e depravato dell’umanità, continuò a scrivere poesie, fino alla morte. Il suo Taccuino di Bor è l’unica raccolta poetica sopravvissuta alla Shoah: testimonia la forza di credere al calore dell’amore nel gelo del lager e di illuminare il buio dell’odio con la luce della fede».

Mi mostra allora il volume che raccoglie le poesie di Radnóti tradotte in italiano più di dieci anni fa per il quale ha scelto questo titolo tratto da versi incisivi del poeta: Mi capirebbero le scimmie. E comincia a raccontare: «Alla fine di giugno del 1946, sulla riva del fiume Rábca, vicino alla località ungherese di Abda al confine con l’Austria, venne riaperta una fossa comune nella quale erano stati gettati i corpi di diversi deportati, trucidati sul posto con un colpo alla nuca. Nell’impermeabile di uno dei cadaveri fu trovata una poesia, grazie alla quale Radnóti, nato a Budapest nel 1909, venne identificato. La pallottola aveva messo fine alla sua drammatica esistenza quando ormai era già stremato dalle marce tra i diversi campi di lavoro forzato in Romania, Serbia, Ungheria. Era il 9 novembre 1944. Aveva 35 anni. Questi gli ultimi versi che gli furono trovati in tasca. Descrivono l’uccisione di un compagno, violinista, lasciando immaginare, subito dopo, la sua stessa fine».

Li leggo: «Gli crollai accanto, il corpo era voltato//già rigido, come una corda che si spezza./Una pallottola nella nuca - Anche tu finirai così /mi sussurravo/ resta pure disteso tranquillo./Ora dalla pazienza fiorisce la morte». E poi una frase in tedesco: «"Der springt noch auf", suonò sopra di me,/ E fango misto a sangue si raggrumarono nel mio orecchio».

«Ciò che colpisce è la frase in tedesco e non nella nostra lingua madre» mi fa osservare Edith Bruck. Perché? «Perché a ucciderlo assieme ad altri uomini non più utili ai lavori forzati nel campo di Bor non furono le SS tedesche ma fascisti ungheresi. Penso che Radnóti, abbia voluto negare a se stesso la verità e abbia scritto quell’ordine in tedesco perché non riusciva ad ammettere di essere ucciso da un figlio della sua stessa patria tanto amata».

Edith Bruck parla della sua "mente alata", che né le umiliazioni estreme, né i lavori disumani sono mai riusciti a piegarne l’umanità, la lucidità e libertà interiore.

«Fin dai suoi primi componimenti, Radnóti – spiega – si esprime con una forza e una sensibilità non comune e il regime lo voleva muto. In una delle sue poesie giovanili finisce sotto processo per vilipendio alla religione; non sua, viene sottolineato. È rivolta a un Cristo che perdona la nostra umanità, che è attratto dall’uomo. Questi i versi incriminati: "Ho ventidue anni. Così doveva apparire anche Cristo in autunno alla mia stessa età/; non aveva ancora la barba, era biondo e le ragazze/ lo sognavano di notte". Il processo fu un altro trauma per lui».

Si può parlare di una sua conversione… «Sì, Radnòti nel 1943, un anno prima del suo assassinio, si converte al cattolicesimo, penso che questo sia quasi l’approdo di un suo percorso naturale. E una conversione che certo non gli assicura nessun privilegio. Come tutti gli ebrei, infatti, subisce le leggi razziali, che lo privano di ciò che ama di più, oltre la poesia: l’insegnamento».

Papa Francesco ha citato alcune poesie tratte dal Taccuino di Bor: «"Prigioniero, ho preso la misura a ogni speranza" (Taccuino di Bor, Lettera alla moglie); "E tu, come vivi? Trova eco la tua voce in questo tempo?" (Taccuino di Bor, Prima Ecloga)», ed ha quindi commentato: «Il poeta ha posto una domanda, che risuona anche per noi oggi».

Quali versi sceglierebbe lei tra quelli che ha tradotto? Voltato lo sguardo fuori la finestra fissa l’albero che ha visto crescere e riprende infine: «L’arte del tradurre è quasi un miracolo, come è miracolo ciò che accade al poeta… credo che forse è sempre la poesia che sceglie noi. Seguendo Radnòti sono stata scelta dalle poesie del suo amico e coetaneo Attila Josef, altro grande poeta ungherese suicida a 32 anni, che per me altro non erano che preghiere o dalle sue, di Radnòti, che mi hanno toccato non il cuore, ma l’anima. Il suo canto non può essere fatto prigioniero da nessuna lingua, è messaggio universale, monito per l’uomo affinché non continui con le barbarie che si susseguono da quando l’uomo è uomo: se questo è un uomo».

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