sabato 2 dicembre 2023
In due libri un’indagine sui legami e le affinità tra Giovanni XXIII e Paolo VI e tra Benedetto XVI e Francesco. Cammini e sensibilità condivise
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Roncalli e Montini: quelle vite «intrecciate»di due cittadini del mondo

Un legame singolare quello che unì Angelo Giuseppe Roncalli, poi Giovanni XXIII, e Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI: bergamasco il primo, bresciano il secondo. Due grandi lombardi, grandi italiani, grandi cittadini del mondo. Una relazione – quella che li unì – alimentata da motivi di lavoro, ma pure via via irrobustita da una sintonia sempre maggiore nella loro Weltanschauung, quanto alla Chiesa e alla società. Come, tra le fonti a disposizione, documenta la loro corrispondenza: oltre duecento lettere ufficiali o private, dai toni prudenti o confidenziali, che affrontano questioni importanti o minori, legate a comunicazioni di circostanza o legate a emergenze, missive che rimandano a situazioni e protagonisti della Curia romana, della cultura, della politica, della società, indicando fatti accaduti o propositi per il futuro. Ma anche come confermano diari, appunti, taccuini a lungo rimasti inediti, insieme alle ricostruzioni degli ultimi testimoni, a cominciare dai collaboratori più vicini, talora spettatori di incontri. E come, per certi versi, dimostra l’evento del Concilio nel segno dell’aggiornamento e del dialogo, alla luce del contributo personale dato dai due, dove diversità di stile, temperamento, sensibilità, metodo di governo, non paiono aver portato a obiettivi e disegni differenti e tantomeno distanti. Roncalli e Montini? Uomini colti e aperti. Uomini simili e diversi. «Il Concilio fu un’esperienza fondamentale anche per il passaggio tra i due papi, realmente consoni nelle loro intenzioni fondamentali, ma con personalità del tutto diverse», scriverà poi Joseph Ratzinger. Simili e diversi anche in ragione dei loro percorsi ai quali guardavano reciprocamente. [...]

Nelle pagine del libro, proveremo a leggere le due biografie – dandone conto “insieme” – a partire dai loro primi incontri lungo le tappe precedenti il pontificato di Roncalli, sostando anche sulle loro “storie diplomatiche”, una “in periferia” (ma nemmeno troppo!), l’altra “al centro”, così importanti per il loro incontro con il mondo, quindi ripercorrendo un pezzo di storia della loro amicizia anche nel segno del Vaticano II. Ovvero di quel Concilio che, «nel solco della Tradizione», doveva – secondo il loro intento – «aggiornare» la Chiesa. Provando pure a frantumare i persistenti cliché: come quelli che hanno letto Roncalli solo come un pastore o Montini solo come un intellettuale, scordando l’impegno come studioso di storia o l’erudizione del primo, la cura pastorale dei giovani e l’esperienza decennale alla guida della diocesi di Milano del secondo.

Senza scomodare modelli antichi come le Vite parallele di Plutarco, dacché si tratta piuttosto di “vite intrecciate”, cercheremo di scorgervi elementi personali e soluzioni adottate, capaci di mettere in luce i due giovani presbiteri, i due diplomatici, i due pastori, e quei pezzi della loro eredità che ancora ci interpellano. Scoprendo in fondo una spiritualità intrisa dell’eredità conciliatorista, transigente, propriamente rosminiana e una fisionomia pastorale con tratti comuni e che nelle radici più remote – lombarde – hanno rivelato nei due affinità non secondarie, palesatesi in modo più evidente per Giovanni XXIII all’indomani dell’elezione. [...]
Comunque siano andate le cose, quelli di Giovanni XXIII e Paolo VI possono essere ancora considerati i due pontificati centrali del Novecento, fondamentali per capire la Chiesa di oggi e l’operato dei loro successori. E se è vero che ogni papato in età contemporanea ha apportato un contributo originale alla Chiesa e alla sua storia, è ancor più vero che Roncalli e Montini hanno aperto insieme una stagione nuova riconosciuta senza esitazioni dal loro successore – Albino Luciani – unendo i nomi di Giovanni e Paolo la sera del 26 agosto 1978, poi imitato il 16 ottobre dello stesso anno da Karol Wojtyła.

Ratzinger e Bergoglio: a ognuno una dimensionedell’eredità di Karol Wojtyla

Qualcuno ha detto che, a differenza di Giovanni Paolo II, sia Benedetto che Francesco sono stati dei Papi divisivi. Credo che la prima ragione sia da individuare nel fatto che essi vengono dopo ventisette anni di un Pontificato dai colori affatto sfumati. Il Pontefice aveva chiamato il cardinale Joseph Ratzinger ad essere prefetto per la Congregazione per la Dottrina della Fede (carica che egli aveva ricoperto dal 25 novembre 1981 al 2 aprile 2005), per cui egli doveva apparire la persona più vicina a lui, quando scomparve. Un Papa che la Chiesa aveva dimostrato di amare moltissimo e cui tutto il mondo aveva riconosciuto un’incredibile popolarità. Anche i funerali, massimamente partecipati sia numericamente sia affettivamente, di Papa Wojtyla, potrebbero aver influenzato la scelta del Conclave per il successivo Papa.

Volente o nolente, il cardinale Ratzinger doveva essere sulla scia del Papa polacco da cui le folle sembravano ancora stregate. Del resto gli era stato fedele e ubbidiente ancorché fosse estremamente diverso da lui. Nel rigore che lo caratterizzava, Ratzinger aveva onorato la carica ecclesiastica che gli era stata conferita senza risparmiarsi, al contrario, persino con eccessi di virtù. Ma il Papa polacco aveva saputo coniugare in sé le differenze e aveva mostrato due volti: l’uno attento alla tradizione, legato al passato, l’altro estremamente aperto alla novità e al futuro. Era stato un Papa giovane e vecchio, sano e malato, dolce e deciso. Era stato immortalato sugli sci sulle montagne della Valle d’Aosta e del Trentino Alto Adige, così come, da anziano, era stato seguito innumerevoli volte dai giornalisti, nei suoi ricoveri in ospedale. Non rinunciava a gustare e a condividere il sapore della sua gioventù nelle vacanze estive, come, per contro, al Gemelli era di casa.

Un Papa non divisivo poiché colmo di chiaroscuri. Attento ai canoni della bio-etica, ma trasgressivo nel rifiutare dignitosamente le cure quando avvertì che era giunta la fine della sua “corsa” terrena. Era stato un Papa d’autorità e di profezia. Nella “politica interna” aveva fatto rallentare di molto la collegialità dei vescovi voluta dal Concilio Vaticano II e riportato la figura del Papa al centro della Chiesa e del governo. Quando i giovani delle sue Gmg tornavano da quelle esaltanti giornate, a chi gli chiedeva: «Cosa avete vissuto?», rispondevano: «Abbiamo visto il Papa». Non Gesù Cristo nel Papa, ma il Papa (quasi...) come Gesù Cristo. E non si riferivano agli insegnamenti del Papa, talvolta non ricordavano nemmeno le sue parole, ma erano segnati dall’entusiasmo che sapeva infondere semplicemente facendo la “ola” con loro. La forza che sapeva trasmettere anche con la sua voce – specialmente nei primi anni di Pontificato – davvero portentosa, portava ad esserne entusiasti. Una capacità seduttiva destinata a riaffermare – suo malgrado – il volto pre-conciliare di un Chiesa gerarchica, petrina, romana, nonostante le sue “fughe” dal Vaticano – come molti le definirono – che venivano lette nei suoi continui, innumerevoli viaggi. Fu proprio Wojtyla a sconvolgere la tradizionale stabilitas dei Papi di Roma e a proiettare un’immagine umana, vicina, “desacralizzata” del Vicario di Cristo. Ma neppure i contatti con mondi lontanissimi lo portavano a rinunciare a una stabilitas dottrinale, dogmatica, dei ministeri e degli ordinamenti ecclesiastici. Circa il sacerdozio, egli disse che mai sarebbe stato possibile conferirlo alle donne, ancorché avesse proiettato su di loro la luce della Mulieris dignitatem. Fu soprattutto nella “politica estera” che Giovanni Paolo II operò come un grande innovatore, come un coraggioso “uomo di mondo”, non solo in virtù della sua straordinaria capacità e piacere di comunicare, ma per i gesti sublimi compiuti verso gli ebrei (la richiesta di perdono), verso i musulmani (la visita alla moschea di Damasco), verso la Chiesa ortodossa.

Di questi due volti – in apparenza antitetici – di Giovanni Paolo II, si può dire, istintivamente, che Ratzinger assume il primo, Bergoglio il secondo. Per questo i due risultano ancora per molti – cattolici e non cattolici – divisivi. E in effetti lo sono stati: divisivi, non però divisi, estranei l’uno all’altro, contrapposti, se non allo sguardo dei superficiali o di chi sia tentato dalla malafede.

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