giovedì 30 aprile 2009
Portare il Vangelo ai «nativi» condividendo la loro vita, la cultura, la lingua. È lo stile di realtà come gli Oblati di Maria Immacolata. «Ma non sempre è stato così – racconta padre Camille Piché –. In passato anche noi siamo stati parte del sistema coloniale»
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Aspettava con gioia la cena organizzata ieri sera con il gruppo venuto a Roma, pa­dre Camille Piché. Avrebbe incon­trato un amico. Un amico nativo. Il missionario Oblato di Maria Imma­colata (Omi), canadese di genitori francofoni, per un quarto di secolo – dal 1964 al 1988 – è stato missio­nario tra le genti dei Territori del Nor­dovest, i Dené. In particolare con i Chipewyan, gli Slavey e i Dog Rib (costola di cane). Poi è passato con un altro gruppo delle First Nations: i Denetha. Ha preso il posto di un confratello italiano, padre Camillo Prosdocimo, vissuto per vent’anni con loro. Attualmente il religioso ca- nadese è a Roma come responsabi­le della commissione «Giustizia, pa­ce e salvaguardia del creato» in seno alla congregazione, nella cui casa ge­neralizia oggi si recherà la stessa de­legazione che è stata dal Papa. Quando era responsabile della pro­vincia oblata di Grandin, padre Piché ha avuto molto a che fare con le que­stioni legate alle Residential Schools. «Nelle zone dove ho operato io – rac­conta – c’erano dei piccoli gruppi fa­miliari che vivevano di caccia e pe­sca. Ai tempi l’unica possibilità per dare continuità scolastica era crea­re questi istituti residenziali. Ma ciò ha portato a una separazione per lungo tempo di ragazzi e ragazze dal­le famiglie: dieci mesi all’anno». Ed è questa una delle o­biezioni mosse. In questo modo la cul­tura nativa si è inde­bolita. Gli Omi hanno am­messo di aver con­tribuito a questo portando all’occi­dentalizzazione. Lo hanno fatto durante il tradizionale pelle­grinaggio al Santua­rio di Lac Sainte Anne nel 1991. È un’esperienza che si tiene dal 1889 e che il religioso ha vissuto più volte. Ogni anno raduna dai 20 ai 40mila nativi, in maggioranza cattolici, da tutte le province e anche dai confi­nanti Stati Uniti. È considerato un luogo di guarigione e vi si svolgono preghiere e Messe nelle lingue loca­li. «In quell’occasione noi oblati chie­demmo scusa per essere stati, non solo per quanto riguarda le Residen­tial Schools, ma più in generale, par­te del sistema coloniale. Di aver im­posto i nostri valori, il nostro modo di vivere, non riconoscendo la loro cultura, la loro lingua e la loro spiri­tualità ».Ma questo non significa che i rapporti con i nativi non siano buo­ni. «Sono persone molto spirituali e vedono nel sacerdote un uomo di Dio. In questo senso, anche la visita al Papa ha un significato molto spe­ciale per loro. E questo è un mo­mento molto importante nel cam­mino di riconciliazione che stiamo compiendo». Una storia, quella della presenza de­gli Omi nel Paese nordamericano, che è tutt’uno con quella della na­zione. «Bisogna dire che molti mis­sionari sono stati autentici eroi, dei pionieri. Ci sono molte località che portano il loro nome, perché sono stati loro a fare il primo Canada», ri­corda padre Benito Framarin, a lun­go missionario a Ed­monton, capitale dell’Alberta, poi a Toronto e per dieci anni direttore del Corriere canadese. I primi evangelizza­tori arrivarono a metà Ottocento. Ini­ziarono a stare tra gli indigeni, a imparar­ne la lingua, a con­dividere la loro vita. Ad aiutarli nelle epidemie che li de­cimavano e li prostravano. Li sep­pellivano, anche. Oppure li sostene­vano. Come quando, intorno al 1870, il bisonte iniziò a sparire. E dall’ani­male dipendeva tutto: cibo, vestiario, abitazioni, i celebri tepee. Anche al cambio di secolo, i missionari agi­vano a favore della popolazione, fa­cendo da intermediari linguistici tra nativi e immigrati europei che ini­ziavano ad arrivare a centinaia di mi­gliaia e a inurbarsi. Edmonton in po­chi anni crebbe da 250mila a un mi­lione di abitanti. Il lavoro educativo e per i poveri era incessante. E con­tinua tuttora. Padre Benito Framarin (Omi): molti missionari sono stati autentici eroi. Dalla parte dei nativi nelle prove più difficili: dalle epidemie alla scomparsa dei bisonti
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