sabato 8 dicembre 2018
Tra loro il vescovo di Orano monsignor Pierre Claverie, sei suore e i sette monaci di Tibhirine. Tutte le vittime furono uccise “in odio alla fede” tra il 1994 e il 1996
Un'immagine d'archivio senza data in cui si vedono 6 dei 7 monaci uccisi a Tibherine (Ansa)

Un'immagine d'archivio senza data in cui si vedono 6 dei 7 monaci uccisi a Tibherine (Ansa)

COMMENTA E CONDIVIDI

Sono 19 i martiri algerini che oggi salgono agli onori degli altari. Tra loro il vescovo di Orano monsignor Pierre Claverie, sei suore e i sette monaci di Tibhirine. Tutte le vittime furono uccise “in odio alla fede” tra il 1994 e il 1996. Il rito è programma alle 13 presso il Santuario di Notre-Dame de Santa Cruz di Orano. Presiede l’inviato del Papa il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi.

È una mattina gelida e nebbiosa sulle alture di Medea. E il monastero di Tibhirine, nonostante la sua mole imponente, si cela tra queste brume autunnali, gonfie di vapori. Sfumano i contorni delle montagne dell’Atlas e le nebbie rendono questo luogo come sospeso nel tempo. Sembra di essere nella scena finale di “Uomini di Dio”, il film di Xavier Beauvois, che ha portato sullo schermo con straordinaria efficacia la vicenda drammatica dei sette monaci trappisti di Notre Dame de l’Atlas rapiti e uccisi nel 1996, durante il decennio funesto del terrorismo in Algeria. In silenzio, scortati dai loro rapitori erano spariti nella nebbia che avvolge un sentiero di montagna innevato. La loro fine la si lascia solo intuire. È un “ad-Dio”, come scrive il priore Christian de Chergé, il compimento di una «vita donata - in anticipo - a Dio e questo Paese» e per questo poche settimane prima del suo rapimento nel diario aveva anticipato: «La nostra morte è inclusa nel dono, non ci appartiene».

Dei sette martiri furono recuperate solo le teste mozzate dai carnefici. I loro cippi bianchi tra i cipressi giacciono oggi qui in tutta la loro nudità nel giardino del monastero accanto alla sorgente d’acqua el Margouma, che continua a irrigare e a rendere fertile quest’angolo di terra e alle tombe dei loro confratelli che qui vissero e morirono durante i sessant’anni anni di presenza trappista su queste alture, a un centinaio di chilometri a sud della capitale Algeri.

Proprio i sette monaci trappisti dell’Atlas, portati via dal monastero arrampicato sul monte, che era diventato luogo spirituale per eccellenza non solo per i cristiani (qui si tenevano gli incontri del Ribât es-Salâm, esperienza di dialogo e amicizia con i musulmani), rappresentano l’emblema di quel martirio d’Algeria che oggi si avvia agli altari. Perché a Tibhirine è una testimonianza collettiva a vocazione universale che gli assassini hanno voluto mettere a tacere. Per questo, dopo il ritrovamento dei resti dei monaci sul ciglio della strada verso Notre Dame de l’Atlas, quando il testamento di fratel Christian si trasforma in una delle pagine spirituali più alte del XX secolo, il priore di Tibhirine diventa il portavoce non solo dei compagni massacrati con lui - i fratelli Christophe Lebreton, Luc Dochier, l’anziano medico del corpo e dell’anima che aveva curato qui quasi seicentomila algerini, Michel Fleury, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard e Paul Favre-Miville - ma anche di tutti gli altri martiri d’Algeria.

Le porte azzurre delle loro celle disadorne sono rimaste come allora. I mantelli bianchi per la preghiera appesi davanti all’entrata della cappella. Il chiostro con l’albero d’arance piantato da fratel Luc. La pagina in arabo aperta sul passo del Vangelo delle Beatitudini su cui hanno informato alla lettera tutta la loro vita per divenire riconosciuti Ibn al bald “figli di questa terra” nella “casa dell’islam”. A condurci nel monastero è Felicité Moizard, una dei quattro consacrati della comunità “Chemin de neuf”, la comunità francese a vocazione ecumenica ispirata dal rinnovamento carismatico ed impregnata dalla spiritualità ignaziana, che da due anni abita qui. «I monaci hanno vissuto con semplicità la convivenza con l’altro nella vita di tutti i giorni. Nella perseveranza dell’amore si diventa come pozzi che irrigano il deserto, si diventa costruttori di ponti. Vogliamo così continuare a vivere la loro eredità». Nella sala del capitolo ci riuniamo per un frugale pasto con i frati ospiti davanti alle finestre che si spalancano sulle terrazze di meli della valle dell’Atlas.

«Proprio qui – ci dice padre Eugenie Lehemabre – nell’incalzare del clima di violenza i monaci avevano preso la decisione comune di restare. La scelta di solidarietà fino alla fine in nome del Vangelo e nella ricerca di quell’umanità plurale in cui riconoscere l’altro come fratello è la testimonianza che rende possibile l’amicizia fraterna e rispettosa di uomini e donne diversi». «Cacciati da un luogo, andremo in un altro» - si spiegava il beato Christian de Chergé. Ecco perché Tibhirine non si tratta proprio di un luogo, ma di un luogo possibile. Luogo possibile persino tra stranieri, dove ci conduce quella sete che non si spegne, forse mai, in nessun luogo, appunto, e che ci fa sfiorare il tetto dell’esistenza, il suo senso. È questa la Tibhirine oggi da ricordare, da abitare.

Leggi l'intervista al cardinale Becciu

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: