venerdì 7 dicembre 2018
Sugli altari il vescovo Claverie e diciotto religiosi, tra cui sei suore, uccisi nel Paese tra il 1994 e il 1996
Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 un commando formato da una ventina di uomini armati irruppe nel monastero trappista di Notre Dame dell’Atlante, 90 chilometri a sud di Algeri. Sette dei nove monaci francesi della comunità furono sequestrati: Luc Dochier, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard, Christian de Chergé, Paul Favre-Miville, Michel Fleury e Christophe Lebreton. L’operazione fu rivendicata dal “Gia”, Gruppo islamico armato, un’organizzazione terroristica la cui azione si intensificò dopo il colpo di Stato del 1992, quando l’esercito impedì il secondo turno delle elezioni che avrebbero visto la vittoria del “Fronte islamico di salvezza”. Il 21 maggio i terroristi annunciarono l’uccisione dei monaci, le cui teste furono ritrovate il 30 maggio, mentre i corpi non furono mai ritrovati. I religiosi erano ben consapevoli della situazione di pericolo in cui si trovavano, malgrado ciò decisero di non abbandonare il monastero, per fedeltà alla loro missione. I due trappisti scampati al sequestro si trasferirono nel monastero trappista di Fès in Marocco.

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 un commando formato da una ventina di uomini armati irruppe nel monastero trappista di Notre Dame dell’Atlante, 90 chilometri a sud di Algeri. Sette dei nove monaci francesi della comunità furono sequestrati: Luc Dochier, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard, Christian de Chergé, Paul Favre-Miville, Michel Fleury e Christophe Lebreton. L’operazione fu rivendicata dal “Gia”, Gruppo islamico armato, un’organizzazione terroristica la cui azione si intensificò dopo il colpo di Stato del 1992, quando l’esercito impedì il secondo turno delle elezioni che avrebbero visto la vittoria del “Fronte islamico di salvezza”. Il 21 maggio i terroristi annunciarono l’uccisione dei monaci, le cui teste furono ritrovate il 30 maggio, mentre i corpi non furono mai ritrovati. I religiosi erano ben consapevoli della situazione di pericolo in cui si trovavano, malgrado ciò decisero di non abbandonare il monastero, per fedeltà alla loro missione. I due trappisti scampati al sequestro si trasferirono nel monastero trappista di Fès in Marocco.

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Il prefetto delle cause dei santi inviato del Papa a Orano luogo del rito. «Di fronte alla violenza pur potendo andare via, questi fratelli scelsero di restare Con loro la Chiesa offre la sua logica della misericordia a tutta l’Algeria» «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» ( Gv 15,13). Tutto è pronto in Algeria per la beatificazione dei diciannove martiri che hanno donato la loro vita per questo popolo. Domani, solennità dell’Immacolata Concezione, a celebrarne a Orano la cerimonia sarà il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi.

Eminenza, è la prima volta che un rito di beatificazione collettiva di 19 martiri avviene in un Paese a maggioranza islamico. Pare proprio di sì, ed è davvero interessante che un Paese musulmano si sia reso disponibile perché sia celebrata dalla Chiesa cattolica una cerimonia come questa.

Che importanza ha questo fatto?
È senz’altro un evento di rilievo non solo per la piccola Chiesa locale, ma anche per i tanti che in questo Paese non hanno dimenticato il vescovo Pierre Claverie e i suoi diciotto compagni martiri. Il loro ricordo è ancora vivo e rimane impressa nella mente di tanti la scelta comune fatta dai monaci di Tibhirine e dagli altri religiosi e religiose di varie congregazioni di non abbandonare il popolo algerino proprio nell’ora più difficile, disposti a pagare la fedeltà a Dio con il dono della propria vita fino all’effusione del sangue.

Cosa avevano in comune questi 19 religiosi?
Il loro assassinio si è compiuto nel giro di due anni, dal 1994 al 1996, nel periodo buio del terrorismo nel Paese. L’ultimo a versare il suo sangue è stato il vescovo di Orano, monsignor Claverie. La loro storia e il loro martirio s’inseriscono nella sofferenza del popolo algerino di quegli anni di guerra fratricida in cui caddero vittime quasi centocinquantamila persone. Ognuno di questi religiosi e religiose è stato un testimone autentico dell’amore di Cristo e del suo Vangelo. Non avevano scelto di essere martiri, avevano soltanto scelto di rimanere laddove Dio li aveva chiamati. Non hanno sfuggito la violenza: l’hanno combattuta con le armi dell’accoglienza fraterna, della preghiera comunitaria, attraverso la relazione rispettosa vissuta giorno per giorno con i loro fratelli musulmani, da uomini e donne di fede, di preghiera, di dialogo, quali essi erano.

Come può essere definito il rilievo ecclesiale di questa causa collettiva?
L’importanza ecclesiale è nel significato del loro martirio. Questi nostri fratelli messi davanti alla domanda se restare o andare via davanti alla situazione di violenza imperante nel Paese hanno deciso liberamente di rimanere fedeli alla loro vocazione, seppure le sollecitazioni a partire erano state tante. «Le beatitudini sono innanzitutto il Vangelo del vivere insieme» scriveva nel suo diario padre Christian de Chergé, il priore della comunità dei sette monaci martiri di Tibhirine. Il martirio è “con” non “contro”. Nel suo stesso testamento scriveva che «l’Algeria e l’islam, per me, sono un corpo e un’anima».

La morte dei sette monaci cistercensi di Notre Dame de l’Atlas ha però ancora contorni oscuri in una vicenda che si svolge nell’intreccio tra forze brutali rivoltose e apparati statali poco chiari. Queste circostanze potranno ora essere definite?
Il ritrovamento delle teste decapitate dei monaci nel maggio 1996 provocarono un’emozione fortissima non solo nella piccola comunità cristiana e in moltissimi musulmani, ma nel mondo intero, specialmente in Francia. Il film a loro dedicato, Des hommes et des dieux (in italiano “Uomini di dio”) ha sconvolto milioni di spettatori. Perché la barbara uccisione di questi uomini di Dio, dediti alla preghiera e al lavoro, autenticamente fratelli dei loro vicini musulmani? La Chiesa ha riconosciuto il sacrificio della loro vita. È auspicabile che le autorità civili facciano luce sulla dinamica del loro assassinio.

Era stata ventilata la possibilità che papa Francesco potesse recarsi in Algeria per questa beatificazione, perché poi non si è realizzata?
È prassi che per la celebrazione di beatificazioni il Santo Padre non partecipi personalmente e che invii un suo delegato. Così è anche questa volta. Tuttavia per manifestare la sua vicinanza al popolo algerino e dare rilievo all’evento ha deciso in maniera eccezionale di nominare il sottoscritto, nella mia qualità di prefetto della Congregazione delle cause dei santi, come suo inviato speciale, facendomi accompagnare da una missione pontificia e da una Lettera apostolica ad hoc.

Ma come può essere accolta questa beatificazione in un contesto musulmano come quello algerino nel quale non sono state ancora del tutto cicatrizzate le ferite degli anni del terrorismo?
Mi hanno riferito che c’è attesa da parte dei musulmani, specialmente di quelli che hanno conosciuto questi nostri fratelli e pertanto non penso che la celebrazione possa passare nell’indifferenza. La Chiesa è in una logica di misericordia e desidera offrirla all’intera Algeria nell’intento di aiutarla a medicare le ferite, rifiutando ogni fondamentalismo, rispettando la sofferenza delle cicatrici ancora numerose e promuovendo il dialogo. Nel ricevere in udienza i vescovi Paul Desfarges, di Algeri, e Jean Paul Vesco, di Orano, il Papa aveva insistito molto su questo punto e aveva sottolineato come il vescovo Claverie sia stato assassinato insieme a un giovane amico musulmano, per cui il sangue si è mescolato nell’amore a questo popolo.

E qual è ora l’aspettativa nella piccola realtà ecclesiale?
I 19 martiri con la loro vita donata rappresentano un’icona dell’identità della Chiesa d’Algeria incarnando fino alla fine la sua vocazione a essere sacramento della carità di Cristo per tutto il suo popolo. Essi hanno fecondato la presenza cristiana in questo travagliato Paese e sono anche ritenuti, con la loro testimonianza autorevole, strumenti di pace. Nel recente comunicato i quattro vescovi dell’Algeria hanno scritto che essi «ci sono donati come intercessori e come modelli di vita cristiana, di amicizia e di fraternità, d’incontro e di dialogo e il loro esempio può aiutare nella vita di ogni giorno». L’attesa di questa minuta ma fervente Chiesa in terra islamica è nell’essere confermati a continuare la testimonianza della fede in tale prospettiva, senza mire di proselitismo, ma nella condivisione, nella donazione totale, nell’umiltà del servizio.

Per lei cosa continuano a dire questi martiri nel tempo di oggi? Il loro messaggio è molto semplice: bisogna essere pronti ad andare fino alle estreme conseguenze del nostro essere cristiani. Di fronte al coraggio, alla coerenza di vita di questi martiri la nostra fede appare tiepida. Essi dunque ci interrogano sullo spessore e sulla qualità della nostra fede. Il loro è un messaggio di speranza, di fraternità, di sfida a quanti si servono della violenza per far avanzare le loro idee o modelli di società. Da qualunque parti arrivi, la violenza semina morte, false illusioni. I nostri martiri invece ci dicono che il dono totale di sé porta vita vera e spalanca le porte dell’eternità.

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