lunedì 18 marzo 2013
​Il flusso di reporter continuo. Federico Wals, collaboratore del Papa, accoglie tutti. E per lui, come per gli altri,  Francesco è «il padre»
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​«Allora ci vediamo al ritorno, padre? Perché torna, no?». «Ma certo!». «L’ho salutato con questa domanda, padre Jorge, prima delle partenza per Roma. Dato che sono – o meglio, ero – il suo collaboratore più giovane, avevo il dovere di scherzare».Federico Wals ha rinunciato alle formalità. Il flusso di reporter nel palazzo arcivescovile di Buenos Aires è continuo. Inutile cercare di regolarlo. E così, questo giovane di 32 anni – da sei responsabile dei rapporti coi media e punto di riferimento dell’équipe del cardinal Bergoglio – ha piazzato un banchetto nel corridoio: chiunque entra può avvicinarsi, chiacchierare, fare domande o ascoltare. Una specie di tenda missionaria – quelle che il monsignore aveva fatto allestire in città per portare la Chiesa in mezzo alla gente – in chiave giornalistica. «Al padre sarebbe piaciuto...», aggiunge. Il «padre». Nient’altro. Così i collaboratori chiamano l’attuale Papa. E non certo per mancanza di rispetto. «All’inizio ho provato a chiamarlo eminenza… Per poco mi cacciava…». «Sono padre Jorge», ripeteva. E i biglietti li firmava solo con le iniziali: J.M.B. «Qualche volta, però – dice –, ci infilava in mezzo un’immaginetta di san Giuseppe». Il «suo» santo del cuore. Proprio accanto al banchetto c’è una statua del falegname di Nazareth, in legno, semplice. «Padre Jorge si fermava spesso lì a pregare. Era molto devoto a san Giuseppe. Credo per il fatto che – lo diceva spesso – sentì la chiamata nella chiesa di San José, a Flores». È Federico a rivelare un dettaglio curioso dei primi giorni di papa Francesco. Venerdì, all’alba, ha squillato il telefono di monsignor Joaquín Sucunza. «Ciao Joaquín», ha sentito il vescovo dall’altro capo del filo. Padre Joaquín era ancora mezzo assonnato ma ha riconosciuto la voce del cardinale. Ancora intontito gli ha detto: «Ciao». Poi si è subito corretto: «Mi perdoni, Sua Santità». La risposta è stata lapidaria: «Joaquín, per favore, io sono il padre Jorge». «Padre». Questo ha cercato di essere più di ogni altra cosa il cardinal Bergoglio. Per tutti. Ma soprattutto per i poveri, i piccoli, i dimenticati, gli esclusi del labirintico processo di sviluppo che l’Argentina vive ormai da decenni. Intrappolata tra crisi cicliche, fiammate di boom, improvvise quanto effimere, miserie croniche. Padre Jorge non si limitava a parlare dei poveri. «I suoi discorsi più eloquenti erano i gesti».Niente di eclatante, di visibile, di mediatico. Piccole espressioni di una granitica coerenza. Come quando, alla vista del sontuoso appartamento arcivescovile, esclamò: «Carino questo hotel. Ma non è per me». E così si trasferì in una cameretta al terzo piano dell’edificio. Dentro, letto, armadio e scrivania. «Del resto non ci stava molto altro», racconta Wals. E alle auto ufficiali preferiva i mezzi. Perché lì si incontra la gente. Attenzione, anche qui non bisogna farsi ingannare da una prospettiva europea. Metro e bus, sulle rive del Plata, sono soprattutto i trasporti dei poveri. Basta soffermarsi a una qualunque fermata per comprovarlo. Facce scure – qui, come in buona parte dell’America Latina, la ricchezza si riconosce dalla pelle –, assonnate, spente, svettano su corpi malvestiti, sgraziati, troppo grassi o troppo magri. Poveri. Tanti e tanti. All’ora di punta non c’è nemmeno spazio per respirare nei vagoni. «Appena aveva un minuto libero, padre Jorge andava a “camminare la città”», spiega Walls. Un modo di dire tipicamente porteño per indicare quel processo di appropriazione-scoperta dei luoghi che va ben oltre la semplice passeggiata. «Nel suo camminare c’è l’idea di una Chiesa che esce dai palazzi e va nel mondo». «Fra la gente – conclude Federico –. Da qui le “tende missionarie”: i sacerdoti stanno lì ad aspettare chiunque abbia voglia di avvicinarsi». Ad accogliere. Come padri.
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