
Luglio 2013: papa Francesco durante il suo viaggio a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù. Fu il primo viaggio internazionale da Pontefice fatto da Bergoglio - foto Siciliani
Dentro a questo libro non c’è solo il racconto di un pontificato, ma anche un rapporto di amicizia nato tra l’autore, il giornalista Andrea Tornielli, attuale direttore editoriale del Dicastero vaticano per la comunicazione, e papa Francesco. Il loro primo incontro risale al Conclave del 2005, quello in cui venne eletto Benedetto XVI, ma si è consolidato a tal punto che Tornielli è entrato nel mondo della comunicazione vaticana. Ora in questo libro, intitolato «Francesco. Il Papa della misericordia», pubblicato da Piemme (pagine 208, euro 18), l’autore racconta il Papa visto da vicino. «Ha testimoniato vicinanza, prossimità, accoglienza verso tutti. Ha suscitato grande attenzione e simpatia, anche nei lontani dalla fede. È stato al centro di polemiche e critiche, senza che questo lo fermasse nella sua missione di evangelizzazione, giunta fino agli angoli più remoti del mondo». Nell'intervista che anticipiamo, Francesco parla dei suoi viaggi internazionali. E racconta come li ha vissuti.
Avevo potuto seguire le sue trasferte internazionali da vicino, partecipando ai voli papali: era un osservatorio privilegiato anche se – per esigenze redazionali – sempre piuttosto sbilanciato sul Papa stesso più che sulla realtà che veniva visitata. Nasce così, come introduzione, l’intervista nella quale Francesco racconta come vive l’esperienza dei suoi spostamenti intorno al pianeta. Incontro il Papa in un afoso giorno di luglio 2016. Ci riceve a Santa Marta, la sua casa.
Santità, lei ama viaggiare?
Sinceramente no. Non mi è mai piaciuto molto viaggiare. Quando ero vescovo nell’altra diocesi, a Buenos Aires, venivo a Roma soltanto se necessario e, se potevo non venire, non venivo. Mi è sempre pesato stare lontano dalla mia diocesi, che per noi vescovi è la nostra “sposa”. E poi io sono piuttosto abitudinario, per me fare vacanza è avere qualche tempo in più per pregare e per leggere, ma per riposarmi non ho mai avuto bisogno di cambiare aria o di cambiare ambiente. Anche se questo talvolta è necessario: ad esempio quando facciamo gli esercizi della Curia Romana, in Quaresima, e ci spostiamo tutti per una settimana ad Ariccia.
Si aspettava, all’inizio del pontificato, che avrebbe viaggiato così tanto?
No, no, davvero! Come ho detto, non mi piace molto viaggiare. E mai avrei immaginato di fare così tanti viaggi...
Come ha cominciato? Che cosa le ha fatto cambiare idea?
Il primissimo viaggio è stato quello a Lampedusa. Un viaggio italiano. Non era programmato, non c’erano inviti ufficiali. Ho sentito che dovevo andare, mi avevano toccato e commosso le notizie sui migranti morti in mare, inabissati. Bambini, donne, giovani uomini... Una tragedia straziante. Ho visto le immagini del salvataggio dei superstiti, ho ricevuto testimonianze sulla generosità e l’accoglienza degli abitanti di Lampedusa. Per questo, grazie ai miei collaboratori, è stata organizzata una visita lampo. Era importante andare là. Poi c’è stato il viaggio a Rio de Janeiro, per la Giornata mondiale della gioventù. Il viaggio a Rio de Janeiro non è mai stato in discussione, bisognava andare, e per me è stato il primo ritorno nel continente latinoamericano.
Quanto le pesano le trasferte internazionali, dal punto di vista fisico?
Sono pesanti, ma diciamo che per il momento me la cavo. Forse mi pesano dal punto di vista psicologico più ancora che dal punto di vista fisico. Avrei bisogno di più tempo per leggere, per prepararmi. Un viaggio non impegna soltanto per i giorni durante i quali si sta fuori, nel Paese o nei Paesi visitati, c’è anche la preparazione, che solitamente avviene in periodi nei quali c’è tutto il lavoro ordinario da svolgere.
Ha cambiato qualcosa nell’agenda già consolidata dei viaggi papali?
Non molto. Ho cercato, ad esempio, di eliminare del tutto i pranzi di rappresentanza. Ma se l’agenda del viaggio, come accade quasi sempre, è già pienissima di appuntamenti, preferisco mangiare in modo semplice e in poco tempo. Mi basta poco, un po’ di riso e un po’ di verdura. Di solito consumo il pasto con il corteo più ristretto, più intimo: c’è il nunzio apostolico del Paese visitato e c’è l’incaricato dell’organizzazione dei viaggi... C’è il comandante della gendarmeria con altri due gendarmi, due guardie svizzere, e infine i miei due aiutanti di camera, che sono bravissimi: sono padri di famiglia, sanno fare le cose bene.
Quali sono le esperienze più belle?
Sicuramente il contatto con la gente. Se mi domandassero qual è il ricordo più bello del viaggio in Armenia del giugno 2016, ad esempio, racconterei che cosa è accaduto alla fine della Messa in quella città, Gyumri, della quale faccio qualche fatica a pronunciare bene il nome. Vedo lì, in un angolo, una donna anziana, una vecchietta che aveva la pelle come pergamena, seccata dal sole. Stava lì, salutava e sorrideva, mostrando due denti d’oro, come si impiantavano una volta. Stava lì umile, salutando. Io, dopo essere sceso dalla papamobile, mi sono diretto verso di lei per salutarla e abbracciarla. C’era l’interprete vicino a me. Lei mi aveva detto: “Io sono venuta dalla Georgia”. Il giorno dopo, l’ultimo del viaggio, mentre mi trovavo a Yerevan, sono andato dalle suore. Stavo salutando la gente, ce n’era tanta. Hanno detto che non si era mai vista tanta gente per strada. E di colpo mi ritrovo davanti quella vecchietta così umile: la stessa che il giorno prima avevo abbracciato a Gyumri! Aveva prima fatto otto ore di bus per arrivare a Gyumri, e poi ha fatto altri centotrenta chilometri per andare a Yerevan e poter rivedere il Papa. Ed era lì, tutta umile... Ecco, per me questo è più gratificante. Questa è, in fondo, la ragione dei viaggi.
Quali sentimenti prova di fronte all’entusiasmo della gente che l’aspetta per ore per vederla passare sulle strade?
Il primo sentimento è quello di chi sa che ci sono gli “Osanna!” ma, come leggiamo nel Vangelo, possono arrivare anche i “Crucifige!”. Un secondo sentimento lo traggo da un episodio che ho letto da qualche parte. Si tratta di una frase detta dall’allora cardinale Albino Luciani a proposito degli applausi che un gruppo di chierichetti accogliendolo gli aveva tributato. Disse più o meno così: “Ma voi potete immaginare che l’asinello su cui sedeva Gesù nel momento dell’ingresso trionfale a Gerusalemme potesse pensare che quegli applausi fossero per lui?” Ecco, il Papa deve aver coscienza del fatto che lui “porta” Gesù, testimonia Gesù e la sua vicinanza, prossimità e tenerezza a tutte le creature, in modo speciale quelle che soffrono. Ci sono poi espressioni bellissime a proposito della paternità in uno dei dialoghi di Paolo VI con Jean Guitton. Papa Montini confidava al filosofo francese: “Credo che, di tutte le dignità di un Papa, la più invidiabile sia la paternità. La paternità è un sentimento che invade lo spirito e il cuore, che ci accompagna a ogni ora del giorno, che non può diminuire, ma che si accresce, perché cresce il numero dei figli. È un sentimento che non affatica, che non stanca, che riposa da ogni stanchezza.
Altri ricordi dei viaggi che le sono rimasti indelebili nella memoria?
L’entusiasmo dei giovani a Rio de Janeiro, che mi tiravano di tutto nella papamobile. E poi, sempre a Rio, quel bambino che, riuscendo a intrufolarsi, ha salito le scale di corsa e mi ha abbracciato. Ricordo la gente accorsa al santuario di Madhu, nel Nord dello Sri Lanka, dove ad accogliermi ho trovato, oltre ai cristiani, anche i musulmani e gli indù, in un luogo dove i pellegrini arrivano come membri di un’unica famiglia. O l’accoglienza nelle Filippine. Ho ancora davanti agli occhi il gesto di quei papà che alzavano i loro bambini perché li benedicessi, e mi sembrava che volessero dire: questo è il mio tesoro, il mio futuro, il mio amore, per lui vale la pena di lavorare e di fare sacrifici. E c’erano anche tanti bambini disabili, e i loro genitori non nascondevano il loro figlio, me lo porgevano perché lo benedicessi affermando con i loro gesti: questo è il mio bambino, è così, ma è mio figlio. Gesti nati dal cuore. Ancora ricordo le tante persone che mi hanno accolto a Tacloban, sempre nelle Filippine. Pioveva tanto quel giorno. Dovevo celebrare la Messa per ricordare le migliaia di morti provocate dal tifone Haiyan, e il maltempo per poco non faceva saltare il viaggio. Ma non potevo non andare: mi avevano tanto colpito le notizie su quel tifone che aveva devastato quella zona nel novembre 2013. Pioveva e io indossavo un impermeabile giallo sopra le vesti per la Messa che abbiamo celebrato lì, come si poteva, in un piccolo palco frustato dal vento. Dopo la Messa un cerimoniere mi ha confidato che era rimasto colpito e anche edificato, perché i ministranti, nonostante la pioggia, mai avevano perso il sorriso. C’era il sorriso anche sul volto dei giovani, dei papà e delle mamme. Una gioia vera, nonostante i dolori e la sofferenza di chi ha perso la casa e qualcuno dei suoi cari.
Quell’omelia rimane una delle più toccanti. Perché tante volte decide di improvvisare?
A Tacloban ho parlato da cuore a cuore. Ci sono incontri e situazioni che non possono lasciare indifferenti, ti toccano. È stato un momento davvero molto forte. Mi sono sentito come annientato, quasi non mi veniva la voce. Anche se il discorso preparato prima del viaggio per quell’occasione è ben fatto, non riesco a non parlare a braccio, guardando negli occhi le persone che ho di fronte. Tanta gente rimasta senza niente, tante famiglie colpite. Le parole a braccio mi vengono al momento, avendo visto e ascoltato la gente. Questo posso farlo quando parlo lo spagnolo o l’italiano, adesso me la cavo un po’ meglio, anche se il mio vocabolario italiano è molto limitato. Un altro incontro davvero toccante a Manila è stato all’università Santo Tomás, quando una ragazzina, piangendo, mi ha domandato perché i bambini soffrono così tanto: povertà, violenza, sopraffazione, sfruttamento. Lei aveva visto tutto questo. Ci sono momenti in cui non riesci a rispondere, puoi solo abbracciare e piangere anche tu. La cultura dello scarto nella quale siamo immersi, le bolle di indifferenza nelle quali viviamo, ci hanno fatto fare l’abitudine all’ingiustizia, e abbiamo perso la capacità di piangere. Dobbiamo chiedere la grazia delle lacrime, e piangere sulle ingiustizie e sui peccati. Perché il pianto ti apre a comprendere nuove dimensioni della realtà. Ci sono poi momenti nei quali preferisco il silenzio e la preghiera: davanti al muro di separazione a Betlemme, davanti al muro che ricorda tutte le vittime del terrorismo a Gerusalemme, al memoriale del “Grande male” che commemora le vittime armene.
Dopo un viaggio, che cosa accade? Come ricorda le persone incontrate?
Le porto nel mio cuore, prego per loro, prego per le situazioni dolorose e difficili con le quali sono venuto in contatto. Prego perché si riducano le disuguaglianze che ho visto.
Non ne abbiamo ancora parlato, ma tra le novità dei viaggi papali c’è, immagino, un protocollo diverso riguardante la sicurezza. È così?
Io sono grato ai gendarmi e alle guardie svizzere per essersi adattati al mio stile. Non riesco a muovermi nelle macchine blindate o nella papamobile con i vetri anti-proiettile chiusi. Comprendo benissimo le esigenze di sicurezza e sono grato a quanti, con dedizione e molta, davvero molta fatica, durante i viaggi, mi sono vicini e vigilano. Però un vescovo è un pastore, un padre, non ci possono essere troppe barriere tra lui e la gente. Per questo motivo ho detto fin dall’inizio che avrei viaggiato soltanto se mi fosse stato sempre possibile il contatto con le persone. C’era apprensione durante il primo viaggio a Rio de Janeiro, ma ho percorso tante volte il lungomare di Copacabana con la papamobile aperta, salutando i giovani, fermandomi con loro, abbracciandoli. Non c’è stato un incidente in tutta Rio de Janeiro, in quei giorni. Bisogna fidarsi e affidarsi. Sono consapevole dei rischi che si possono correre. Devo dire che, forse sarò incosciente, non ho timori per la mia persona. Ma sono invece sempre preoccupato per l’incolumità di chi viaggia con me e soprattutto della gente che incontro nei vari Paesi.
Decine sono ormai le visite alla basilica di Santa Maria Maggiore, prima e dopo ogni viaggio, perché?
Perché, rimanendo in tema di sicurezza, la vera sicurezza bisogna chiederla alla Mamma. Bisogna affidarsi a Maria, mettersi al riparo sotto il suo manto. A Santa Maria Maggiore si custodisce l’antica icona della Salus Populi Romani, un’immagine della Vergine alla quale sono devoti i romani. Sono il vescovo di Roma e quindi ogni volta che mi devo mettere in viaggio vado a chiedere aiuto alla Madonna tanto cara ai romani. Al ritorno da ogni viaggio, prima di rientrare in Vaticano, vado a ringraziare per l’aiuto che mi ha dato e mi piace lasciare sempre ai suoi piedi dei fiori o un oggetto legato al viaggio. Si cammina più sicuri e ogni paura svanisce se la Mamma ti tiene per mano.