Inquieti, vulnerabili, lamentosi... Qui ci vuole una “rivolta della speranza”
Un tempo sovrastato dalle preoccupazioni induce il pessimismo e il ripiegamento su di sé. Oggi il problema principale è il tramonto della speranza, motore della storia. Ecco perché ai credenti spetta la responsabilità di una reazione

Il Giubileo della speranza si colloca in un tempo di inquietudine e preoccupazione, per le troppe situazioni di conflitto aperte nel mondo, e per l’insufficiente impegno dispiegato per contrastare i processi di riscaldamento globale che mettono a rischio l’abitabilità di molte zone della terra. La tentazione della disperazione, e di conseguenza del ripiegamento su di sé e della rassegnazione, sono forti. Grande è il bisogno di ritrovare le ragioni della speranza, che muovano tutti a passi concreti nella direzione della pace e della sostenibilità. Con quale fiducia viverle la speranza, allora? Con quali sentimenti nel clima pessimista di questo mondo e in una Chiesa, tante volte stanca, che sembra voglia raccogliere le sue forze, considerate minoritarie, più che fare un salto in avanti?
Dopo la passione degli anni del post-Concilio, per alcuni la vita cristiana si è diluita nella vicenda del mondo, smarrendo l’identità della fede e anche la speranza. Non pochi si sono adattati e hanno rinunciato a cambiare il mondo e la storia, a dire parole significative. Eppure, dopo decenni, si vede che senza fede non si resiste e non si avanza in una missione difficile. Vivere con speranza, senza separarsi dagli altri, vivere appieno nel mondo, e testimoniare qualcosa di diverso, non è facile né comodo: richiede uomini e donne di fede, persone spirituali.
Il vero problema delle nostre società è il tramonto della speranza, che è il motore della storia. C’è una malattia diffusa: l’anemia di speranza. Cioè pensare che non si possono più fare grandi cose, che i problemi non si risolvono, che è inutile pensare in grande. Così si cade nel privato: la privatizzazione dell’io, individualista e un po’ scarico, senza tensioni, senza aspettative, cinico e narcisista. Ma si può reagire a quest’aria triste che finiamo per respirare anche senza volerlo: si può amare il futuro e non volere che muoia nel presente.

Questo Giubileo – se pure la speranza è sfidata, in questo tempo, se pure il realismo, la rassegnazione, la sfiducia sembrano sensibilità ben più consone all’oggi di uno sguardo speranzoso – ci ricorda che chi spera non resta deluso. Una bella prospettiva, in un mondo dove si è invece delusi e disillusi con grande facilità. La Scrittura ci ricorda che se speriamo non saremo delusi, tantomeno disillusi. Ha scritto il filosofo e psicologo tedesco, Erich Fromm: «Sperare significa essere pronti in ogni istante a ciò che non è ancora nato... coloro che sperano ardentemente vedono e amano ogni segno di una nuova vita e sono pronti in ogni momento ad aiutare la nascita di ciò che è pronto a venire al mondo». Chi spera può vedere e amare i segni di una vita nuova. Sono questi segni che mancano a una cultura disillusa e cinica: niente va bene, non c’è nulla da fare, dobbiamo rassegnarci al male. Il buio è spesso prepotente, e come scrive Andrea Riccardi «il male sembra talmente grande che ci si rassegna all’irrilevanza. C’è, in questo, un potere schiacciante del male».
Papa Francesco ha avuto un’intuizione profetica nel dedicare questo Giubileo alla speranza. Perché senza speranza non vi è nessuna partenza o ripartenza, nessun movimento, nessuna alternativa al male. C’è bisogno di accendere luci di speranza nel buio. Non come palliativo o consolazione, ma perché le luci attraggono tanti, si estendono, possono diradare le tenebre. La speranza rinnova il nostro agire. La speranza è rivolta al futuro. Chi spera diventa vulnerabile al nuovo, alle nuove possibilità. Osa il salto verso una nuova vita. La speranza ci apre vie nuove di fronte alla negatività e alla disperazione. Quando si spera per una situazione difficile o drammatica si vede che pian piano le cose cambiano in meglio. Quando si parla con rispetto e attenzione a giovani soli, disillusi o rassegnati e li si avvicina a una realtà positiva si vede la loro vita trasformarsi. Quando si accolgono persone in difficoltà, rifugiati, sfollati, e si offre loro sostegno e amicizia si vede la loro vita rifiorire.
La speranza è così attraente che per essa si può anche morire. Ce lo ricordano i migranti, che cercano una via di salvezza in Europa o in America e non ce la fanno: muoiono nel Sahara, nel Mediterraneo o nel deserto messicano o americano e subiscono abusi e violenze. Queste storie tragiche di emigrazione ci dicono che ci si sacrifica e si rischia la vita per un sogno, per una speranza. Nel caso dell’America Latina è il sogno di sfuggire alla violenza delle maras o della repressione, la speranza di una società non così atrocemente divisa tra ricchi e poveri. Ricordo bene l’immagine del giugno 2019 su un fiume americano: due corpi a faccia in giù, un uomo e una bambina. Uniti da una maglietta, dall’affetto reciproco, da una speranza coltivata insieme. Ma anche dalla morte. Immersi nell’acqua torbida di fango. Óscar e Valeria, padre e figlia, migranti salvadoregni affogati nel tentativo di attraversare il confine fluviale tra Messico e Stati Uniti. Quell’immagine simbolo della tragedia dei migranti che dal Centro America cercano la via della felicità a nord del Rio Grande, negli Stati Uniti, si affianca idealmente a un’altra foto, quella del piccolo Alan Kurdi, annegato nel Mediterraneo nel 2015 mentre con la propria famiglia sognava di raggiungere la sponda nord del grande mare, e dunque l’Europa, il continente libero dalla guerra. È successo. Continua a succedere. Di speranza si muore ancora, nel Mediterraneo come pure lungo le altre rotte, via terra, dell’immigrazione, verso l’Europa e gli Stati Uniti. Tra i muri che si innalzano e le navi di soccorso che vengono fermate, il risultato è un’ecatombe.
Ecco: quel che preme alle frontiere del Nord o alle nostre coste, quel che si muove alla base della muraglia americana, è un’onda di speranza, è il rifiuto della rassegnazione e della disperazione, è la scommessa aperta e fiduciosa sul futuro. Un’onda di speranza che non vediamo, avvitati in un discorso vittimista e autoreferenziale sulla crisi, o ripiegati sulle nostre cronache e sul nostro disagio. Quanto potremmo imparare da questa rivolta della speranza! Da un’umanità che, per citare papa Francesco, non vuol essere un insieme di vite di scarto e non vuole che le sia rubata la speranza. Tutto questo ci interroga su cosa significhi vivere di speranza, cosa voglia dire sperare sempre. Queste storie, anche nella loro tragicità, ci dicono quanto la speranza può muovere il mondo.
Ma pensiamo anche ai più giovani, al loro grido muto, alla sete di speranza che esprimono in maniera involuta, chiudendosi in sé stessi, manifestando un disagio più profondo che in passato, trasferendosi all’estero... Grande è la nostra responsabilità di padri, madri, fratelli e sorelle maggiori. È tempo di cessare il lamento sterile, come pure di ricominciare a trasmettere entusiasmo e speranza. Del resto, lo abbiamo fatto in altri momenti difficili – ben più difficili – della nostra storia. Il grande problema della stagione che stiamo attraversando è la chiusura delle strade e delle prospettive, che diventa chiusura umana. Il risultato è un mondo dalle porte chiuse, in una globalizzazione in cui gli uomini e le donne sono tutti più soli e “periferici”. Ebbene, allora, la “porta chiusa” che si è spalancata per l’Anno Santo può invece essere il simbolo di un domani differente. Il Giubileo è – sin dal nome – il felice incontro tra la Chiesa e il bisogno degli uomini e delle donne di ogni generazione di sentirsi sostenuti nelle proprie attese, nelle proprie visioni, nei propri sogni. La comunicazione del Vangelo nelle città e nel mondo globale si gioca per le strade, nella franchezza, nella carità, nel seminare speranza.
Se il nostro tempo è avaro di messaggi di speranza non è forse compito della Chiesa – che custodisce la promessa più incredibile mai fatta ai membri del genere umano, quella della risurrezione – adoperarsi perché la Buona Notizia e le buone notizie che ne scaturiscono raggiungano uomini e donne stanchi e scoraggiati? Perché la speranza ritrovi cittadinanza per tutte le età e a tutte le latitudini? Non siamo gente della rassegnazione o – peggio – della disperazione. I cristiani sono il popolo della fede e della speranza.
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