mercoledì 21 aprile 2021
L’attuale nunzio in Venezuela era segretario generale del Ccee quando fu firmata la Charta Oecumenica, pensata come un procedere un cammino
L’arcivescovo Giordano, dal 2013 nunzio apostolico in Venezuela

L’arcivescovo Giordano, dal 2013 nunzio apostolico in Venezuela - .

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Non la meta di un viaggio, ma la tappa di un percorso, che “chiama” le Chiese cristiane all’impegno, delicato e affascinante, di partecipare alla costruzione della “nuova” Europa. Un processo corale, all’insegna del dialogo e della riconciliazione, per definire il ruolo dei credenti nel servizio al bene comune, per arricchire di sapienza evangelica un’Unione fin troppo vincolata a bilanci e parametri economici. Vent’anni fa, il 22 aprile 2001, a Strasburgo veniva firmata la Charta Oecumenica. L’arcivescovo Aldo Giordano, oggi nunzio apostolico in Venezuela, era segretario generale del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa), l’organismo che insieme alla Kek (Conferenze della Chiese europee) lavorò direttamente al documento. «Il testo – ricorda monsignor Giordano – fu firmato al termine di un incontro ecumenico europeo in un anno in cui la data della Pasqua coincideva per tutte le Chiese e comunità cristiane. Ad esso avevano partecipato oltre 250 delegati del continente, la metà responsabili di Chiese e la metà giovani, per pregare e riflettere attorno al tema “Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo'. Avevamo invitato i giovani, convinti che loro avevano la possibilità di scrivere pagine nuove nella storia della riconciliazione. La Charta era frutto di un lungo e impegnativo lavoro corale fatto insieme dalle tre grandi tradizioni ecclesiali cristiane presenti in Europa: cattolica, ortodossa e protestante. Le consultazioni erano durate alcuni anni.

La scelta di Strasburgo per la firma non fu casuale….
È una città simbolo, sulla frontiera europea, tra Francia e Germania, i due Paesi che si confrontarono con terribili guerre, sede del Consiglio d’Europa che raduna i 47 Paesi della grande Europa e luogo dove si incontra il Parlamento dell’Unione Europea.

A distanza di vent’anni pensa che la Charta Oecumenica abbia dato i frutti sperati? Dove è stata applicata e in quale punto invece è stata trascurata?
La “Charta Oecumenica” è il primo documento storico di questo genere. Sono passati 20 anni, la storia corre molto veloce, ma le sfide di fondo restano le stesse. Come contribuire a costruire una “casa” europea capace di ospitare popoli, culture, etnie, religioni, diversi? Come assumersi come europei i problemi dell’umanità intera, specie del sud del mondo, in una logica di scambio di doni? Come affrontare insieme le grandi domande etiche globali che l’umanità affronta: dalla custodia della creazione, alla biomedicina, alla pace, alla giustizia? Come rispondere alla grande domanda di senso, di amore, di felicità che specie le giovani generazioni si pongono davanti alle esperienze del dolore e della morte? Ogni generazione è chiamata a rispondere di nuovo a queste domande di fondo e la responsabilità dei frutti della Charta appartiene ad ogni generazione.

Punto centrale del testo è il ruolo dei cristiani nella promozione e la tutela dei valori su cui si fonda la costruzione europea. L’impressione è che il continente stia però smarrendo il senso di se stesso.
La terza parte della Charta Oecumenica - la più estesa - delinea proprio la responsabilità che le Chiese, senza pretendere di avere una riposta esaustiva su tutti i problemi della società e della cultura, hanno davanti alla costruzione europea. I cristiani sentono che l’originalità del loro apporto sta soprattutto nel campo della riconciliazione e dei grandi dialoghi tra i popoli, le culture e le religioni. Trovo significativo il fatto che per dire l’originalità “cristiana” del testo rispetto ad altre dichiarazioni o carte sui diritti fondamentali o i diritti umani si sia inserito il concetto di perdono e di misericordia (n.7). L’ultimo impegno della Charta è quello del “testimoniare la fede cristiana”. Noi cristiani siamo convinti che il Vangelo di Gesù Cristo sia la “buona notizia” per l’Europa e che appartenga alle radici della sua identità. Penso che l’Europa debba riconcentrarsi su queste radici per avere un futuro.

L’altro elemento fondante è la collaborazione tra le religioni e la res pubblica per il bene comune. In questo senso le religioni stanno giocando il ruolo che spetta loro?
L’ultimo capitolo della Charta è dedicato all’incontro con le altre religioni e visioni del mondo. Esso ha richiesto molto dibattito: da un lato, si voleva sottolineare la libertà di coscienza delle persone e l’importanza di un confronto leale con tutti, dall’altra, non si poteva tacere il fatto che certe esperienze pseudo-religiose sono aperte alla violenza e contengono gravi rischi per gli aderenti e la società, anche con gravi violazioni.

L’Europa alla base della Charta è aperta, plurale mentre oggi sempre più spesso sembra volersi asserragliare nei suoi confini.
La Charta è stata scritta per chiedere all’Europa di non chiudersi come una fortezza, perché questo avrebbe corrotto la sua vocazione storica. Mi sembra che a livello ecumenico stiamo crescendo nella collaborazione nell’ambito della solidarietà.

Sotto il profilo del dialogo tra le Chiese la pandemia ha ridotto o allargato le distanze tra i cristiani?
L’esperienza della fragilità di solito sgretola l’arroganza e quindi apre a chiedere aiuto all’altro. Ma occorre attendere il tempo per rispondere a questa domanda.

Vent’anni dopo quale pensa sia stato il risultato più importante della Charta?
Papa Francesco ama molto la categoria del processo. In un’epoca di crisi la cosa più importante è aprire un processo e la Charta è stata sempre pensata come un processo. L’autorità del testo consisteva nell’auto- obbligazione da parte delle Chiese e quindi tutto dipendeva dal processo che avrebbe generato, soprattutto a livello locale. Che questo processo di riconciliazione, anche se umile, resti vivo e contribuisca a far rifiorire il deserto.

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