giovedì 19 maggio 2016
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Don Paolo Zago è prete dal 1983. Ha 56 anni e da sei è parroco di San Protaso a Milano, territorio di cerniera verso la periferia di San Siro (zona di cui è decano), con una elevatissima componente di immigrati: basti dire che dei 17mila abitanti della parrocchia solo 10mila risultano cattolici, e di questi molti sono sudamericani e filippini. Un parroco di frontiera, dunque. Che sul discorso del Papa ai vescovi italiani esprime un giudizio lapidario: «Entusiasmante! È bellissimo come Francesco riesca a esprimere il profondo del cuore che anima la mia vita presbiterale». Don Paolo sente anche «la distanza tra il dono di Dio e la mia umana miseria, per questo avverto che il mio ministero è sempre sotto il segno della misericordia di Dio. Da giovane prete credevo che sarei stato l’ideale di sacer- dozio che avevo in mente, oggi mi rendo conto che il mio ideale non è un ruolo: è Dio. Sono stato spesso richiamato a scegliere Dio come mio tutto, come unico mio bene». Il ministero sacerdotale è prodigo di soddisfazioni come di salite impervie: «Mi aiuta – riflette Zago – saper perdere tutto per Dio, mettere Lui al centro del mio essere, Lui vivo, presente e reale, un Dio crocifisso, che non ha accettato alcuna forma di potere né sociale né spirituale, che non ha preteso diritti». In oltre trent’anni don Paolo ha imparato che «per affrontare difficoltà e incomprensioni del ministero occorre vivere i nostri 'problemi di preti' come espressione del volto del Dio cui abbiamo donato la vita». Al Papa don Zago è grato anche per un altro motivo: «Con le sue parole fa sentire compreso chi si spende nel ministero ordinario in parrocchia. Francesco così rimette me e ciascuno di noi parroci in quella linea retta da cui leggere e vivere il sacerdozio: l’unità con Dio e gli uomini». È sperimentato che «è l’incontro con le storie, i drammi e le gioie della mia gente a formarmi. Quanta ricchezza e grazia ricevo dall’essere 'mangiato' dalle persone che incontro e che a me prete si rivolgono». Anche per questo «oggi è importante non essere 'lupi solitari' ma vivere la fraternità con altri preti con cui 'fare famiglia', sperimentando la povertà come forma di carità e unità». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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