mercoledì 24 febbraio 2010
«Il Paese non crescerà se non insieme». A ribadirlo sono i vescovi italiani, nel documento dal titolo Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, diffuso dalla Cei. «È indispensabile che l’intera nazione conservi e accresca ciò che ha costruito nel tempo», a partire dalla consapevolezza che «il bene comune è molto più della somma del bene delle singole parti».
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Il «cancro» delle mafie. L’inadeguatezza delle classi dirigenti. Il dissesto ambientale. La disoccupazione, il lavoro nero, la povertà delle famiglie, l’emigrazione dei giovani. Ma anche il mix fra modernizzazione acritica e gli «antichi germi» del familismo e dell’omertà: quante ferite, nella carne viva del Sud. Problemi drammatici – denunciano i vescovi italiani – aggravati dalla crisi economica e dall’«egoismo individuale e corporativo» cresciuto in tutto il Paese, che rischiano «di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo». Ma non è del male l’ultima parola. Nella Chiesa e nella società del Sud ci sono risorse di socialità, cultura, spiritualità, che alimentano la speranza del riscatto oltre «ogni forma di rassegnazione e fatalismo». Un riscatto che prenda forza dall’«umanesimo cristiano», riconosca la «sfida educativa» quale «priorità ineludibile» e abbia nel federalismo solidale uno strumento efficace.Fra magistero e «testimoni».Proprio con un invito «al coraggio e alla speranza» si conclude il documento della Cei Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, diffuso ieri (testo integrale al centro del giornale), che riprende «la riflessione sul cammino della solidarietà nel nostro Paese» a vent’anni dalla pubblicazione del documento Sviluppo nella solidarietà (1989) e alla luce del convegno Chiesa nel Sud, Chiese del Sud (Napoli, 12-13 febbraio 2009). Il documento si apre passando in rassegna le emergenze «vecchie e nuove» del Mezzogiorno; nella seconda sezione, Per coltivare la speranza, i vescovi additano risorse ed espressioni del «nuovo protagonismo della società civile e della comunità ecclesiale» (come il Progetto Policoro); la terza sezione, Le risorse della reciprocità e la cura per l’educazione, mette a fuoco missione e ruolo della comunità ecclesiale. Pagine ricche di citazioni e riferimenti. Alla dottrina sociale della Chiesa, anzitutto, ma anche a quei testimoni e maestri che con la parola e la vita hanno aperto spazi di profezia e di liberazione: figli del Sud come Pino Puglisi, Giuseppe Diana, Rosario Livatino, Luigi Sturzo, Aldo Moro. E "padri" venuti da lontano come il Giovanni Paolo II che il 9 maggio 1993, nella Valle dei Templi, ad Agrigento, disse parole definitive sulla mafia.La nuova questione meridionale. A muovere la riflessione dei vescovi è la «constatazione del perdurare del problema meridionale» che oggi, come vent’anni fa, chiama la Chiesa italiana agli «ineludibili doveri della solidarietà sociale e della comunione ecclesiale». Le «genti del Sud» siano «le protagoniste del proprio riscatto, ma questo non dispensa dal dovere della solidarietà l’intera nazione», disse Wojtyla nel 1995 al Convegno ecclesiale di Palermo. Che cos’è cambiato in questi vent’anni? La geografia politica, il sistema di rappresentanza nel governo degli enti locali, l’avvio della privatizzazione delle imprese pubbliche, il venir meno del sistema delle partecipazioni statali, la fine dell’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno («di cui non vogliamo dimenticare gli aspetti positivi», sottolineano i vescovi). Inoltre: tanti migranti giunti dall’Africa, dall’Asia, dall’Est Europa hanno trovato nel Sud «il primo approdo della speranza»; e il Sud è «laboratorio ecclesiale in cui si tenta», dopo aver dato soccorso e accoglienza, «un percorso di giustizia e promozione umana e un incontro con le religioni professate dagli immigrati e dai profughi».La sfida del federalismo solidale. La realtà del Sud, scrivono i vescovi, è quella di uno «sviluppo bloccato» dove gli aiuti che arrivano non sempre "aiutano" davvero; dove l’elezione diretta degli amministratori locali «non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica»; dove la condizione femminile soffre ancora emarginazione e discriminazioni, mentre ci sono donne salite ai vertici delle mafie; dove ecomafie, crisi dell’agricoltura, fragilità del territorio e dell’economia pongono ulteriori ipoteche sulla via del riscatto e impediscono al Sud di assumere il ruolo che gli compete nel cuore del Mediterraneo e in Europa. Queste emergenze invocano un «federalismo solidale, realistico e unitario» capace di responsabilizzare il Sud rafforzando l’unità del Paese: un orizzonte cruciale, nell’imminenza «del 150° anniversario dell’unità nazionale».Mafia, struttura di peccato.La criminalità organizzata, ormai ramificata in tutto il Paese, «non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese». «Le mafie sono la configurazione più drammatica del male e del peccato», scrivono i vescovi: non mera «espressione di una religiosità distorta» bensì «strutture di peccato», «forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione».«Solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità mafiosa permette di uscirne veramente», a costo di «subire violenza e immolarsi. Si deve riconoscere – ammettono i vescovi – che le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni morti per la giustizia».Educazione e riscatto. Nella società e nella Chiesa ci sono risorse culturali e spirituali per il cammino del riscatto. La Chiesa, in particolare, sta con «quanti combattono in prima linea per la giustizia sulle orme del Vangelo e operano per far sorgere», come chiese Benedetto XVI il 7 settembre 2008 a Cagliari, «una nuova generazione di laici cristiani» al servizio del bene comune. Consapevole di essere «fattore di sviluppo e di coesione» sociale, la Chiesa si sente chiamata alla sfida educativa e alla trasformazione delle coscienze, testimoniando lo stile della condivisione e della comunione anzitutto al proprio interno. Il problema della sviluppo non è solo economico: è «etico, culturale, antropologico». Perciò la Chiesa si impegna ad «alimentare costantemente le risorse umane e spirituali» da investire nella «cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità». Dunque: «L’esigenza di investire in legalità e fiducia sollecita un’azione pastorale che miri a cancellare la divaricazione tra pratica religiosa e vita civile e spinga a una conoscenza più approfondita dell’insegnamento sociale della Chiesa, che aiuti a coniugare l’annuncio del Vangelo con la testimonianza delle opere di giustizia e di solidarietà».
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