martedì 2 agosto 2011
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In questa storica roccaforte socialista dell’hinterland madrileno insieme ai palazzi per gli immigrati, negli anni 70, era stata progettata anche una chiesa. Ma l’hanno fatta bassa, di mattoni rossi, così che da lontano la diresti piuttosto un’officina; e senza croce, né campanile né campane. Il parroco che c’era prima la campana l’ha messa di notte, di nascosto, e anche la croce – come un don Camillo nella Bassa. Quello arrivato nel 2003, don Antonio Anastasio, milanese, 49 anni, ha aggiunto i banchi di legno, e una Madonna lignea fatta a mano, e un confessionale, e ora la penombra dentro San Juan Baptista è accogliente. Il sacrestano viene della Guinea, è ospite della casa parrocchiale per senzatetto; ogni sera a un quarto alle otto la sua mano nerissima tira la corda della campana dell’Angelus. Sottile voce nella distesa di cemento; però viva. Se c’è una terra «di antica tradizione cristiana» che attende una nuova evangelizzazione, come dice il Papa, questa periferia metropolitana dove si affollano operai e immigrati messi alle corde dalla crisi lo è senz’altro. Si coglie per le strade, negli sguardi, lo scoramento di chi torna a casa la sera a mani vuote: e quanti bambini piccoli, per mano a madri in jeans, in chador, slave, cinesi, nere. Massa di bisogni e solitudini, babele; la frontiera della "nuova evangelizzazione" a Fuenlabrada appare aspra. Ma questo prete sembra ben solido. Don Antonio viene dalla periferia milanese degli anni ’60. Lui stesso è figlio di un calabrese. Quando questa parrocchia di 25 mila anime, conosciuta come tumultuosa, è stata affidata anni fa alla Fraternità sacerdotale missionaria San Carlo, forse è stato naturale mandarci proprio lui, un ragazzo di Baggio; non da solo, come usa la San Carlo, ma con tre confratelli, oltre a un seminarista italiano che studia lo spagnolo. Vivono insieme nella casa parrocchiale.  E son passati quasi otto anni stamattina, quando domandi a Anastasio qual è stata la prima cosa cui ha posto mano, appena arrivato qui. «Il catechismo dei bambini», risponde. «In Spagna la prima comunione è un rito festeggiato quanto un matrimonio; così che qui avevamo 500 bambini a ricevere il sacramento. Poi però sparivano tutti. Il catechismo era come una scuola, nozioni da mandare a memoria; così che appena finita la festa i ragazzi scappavano. Abbiamo cambiato tutto: col gioco, con l’amicizia, abbiamo cercato di fare capire che il catechismo è vita; e che tutto, nella giornata, c’entra con Dio. Per tutti abbiamo cercato la via di quell’incontro personale con Dio, che come dice Benedetto XVI è l’inizio della evangelizzazione, Oggi abbiamo quaranta bambini che frequentano il catechismo dopo la prima comunione. È un lavoro lento, paziente; è come piantare dei semi, annaffiarli, e aspettare». I bambini, e i grandi? Cosa porta un prete tra gli uomini di una periferia affannata? «È stato proprio il bisogno di quelli che bussavano alla canonica, senza un tetto, a provocarmi», dice Anastasio. «Mi domandavo: cosa posso fare per loro? E un giorno ho radunato quelli della parrocchia che mi erano più amici, e ho posto la questione: e se facessimo una casa per accogliere i senzatetto? Le reazioni sono state aspre: chi non li voleva per paura, chi perché, tanto, "quella è gente che non cambia mai", chi, brutalmente, perché "quelli sono sporchi". In questa massa di reazioni ho scoperto che avevamo davvero un urgente bisogno di una casa per senzatetto: ma, prima di tutto, per educare noi stessi alla carità. Avevamo bisogno di educare noi stessi a dare senza aspettarci nulla in cambio; di imparare la gratuità, che è poi lo sguardo di Cristo su di noi. Dare senza attendere un grazie, e mettendo in conto anche i tradimenti e le delusioni. E questo c’entra con la evangelizzazione, anzi ne è il cuore. Perché proprio nel momento in cui doni gratuitamente, chi riceve può stupirsi di questa modalità così inconsueta fra gli uomini, chiedersi: ma perché questi mi trattano così? Che è il principio di una domanda nuova». La carità , quella della lettera di Paolo ai Corinzi, come la breccia che incrina i muri più compatti, penetra nei luoghi più sordi. In un meccanismo silenzioso e strano: succede che proprio fra gli "ultimi" qualcuno si metta a sua volta a aiutare chi è più povero di lui. E in questo dare risorge. Il capo di una delle casa Sant’Antonio per i senzatetto è un ex alcolizzato. La madre con quattro bambini da sfamare viene a dare una mano al venerdì, quando con la Caritas si distribuiscono aiuti ai poveri. La carità affascina e seduce. Alcune donne islamiche frequentano la parrocchia. A ciascuno il suo Dio, però da amici. E nei giorni della sciagura di Haiti, anche le donne islamiche hanno voluto fare il loro banco di beneficenza. Con pazienza, senza aspettarsi esiti, come, dice don Antonio, «chi abbia seminato in una terra dura. E però mai dicendo: è impossibile che accada». Singolari destini si incrociano a Fuenlabrada. Un ex senzatetto è entrato in seminario, come un ragazzo di qui, che ora studia a Roma; una ragazza si è fatta suora e altri due sono volontari in San Salvador. La carità – che si fa ascolto, mentre ogni mattina qualcuno bussa e chiede di essere guardato come un figlio – genera; ma dove attinge le forze un prete di frontiera? «La compagnia dei miei fratelli sacerdoti, in casa, mi sorregge», risponde don Antonio «non potrei farcela da solo. E la Messa, che magari finisco col dire la sera tardi, stanco, è il mio riposo: perché i tanti per cui io non posso fare niente li affido nelle mani di Cristo, e domando: a loro pensaci Tu. Con certezza assoluta, giacché quello che accade qui sarebbe impossibile, se ciò in cui crediamo non fosse tutto vero». È un alacre fare quello che vedi in una mattina qualunque a san Juan Baptista: i corsi di informatica e teatro per sottrarre le casalinghe alle case vuote, l’andirivieni indaffarato nella stanza dove si distribuiscono gli aiuti della Caritas – una lunga coda di donne in chador, mamme con bambini di pochi giorni, uomini a capo chino. Un gran daffare, ma il cuore di quel fare sta nelle parole di Angel e di sua moglie, parrocchiani spagnoli, borghesi, tornati in chiesa dopo molti anni: «Dopo una messa della mezzanotte, a Natale – racconta Angel – in cui dopo tanto tempo ho sentito parlare di Cristo non al passato, ma come di un uomo vivo, che vive in mezzo a noi». E pensi allora al santone della "Chiesa del Re della Gloria" che promette miracoli dal manifesto nel metrò. Sì, occorre non uno, ma mille miracoli a Fuenlabrada; il miracolo però umile e quotidiano di un Dio incarnato e vivo nelle facce dei suoi.
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