mercoledì 16 settembre 2020
Il presidente della Cei ricorda il prete ucciso a Como. «Quando un uomo soffre, non ha cibo, non ha un tetto, non ha un lavoro, il cristiano è tenuto a intervenire. Altrimenti commette peccato»
Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, in una foto d’archivio mentre incontra un gruppo di profughi

Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, in una foto d’archivio mentre incontra un gruppo di profughi - Avvenire

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«Leggo che la gente definiva don Roberto “troppo buono”. La bontà che è amore per il prossimo non è mai troppa. Lo sanno bene tanti nostri sacerdoti che, magari invisi da alcuni perbenisti, donano la loro vita per l’altro, a cominciare da chi è vittima di quella cultura della scarto denunciata a più riprese dal Papa». Ha la voce commossa il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, quando parla di don Roberto Malgesini, il prete dei senzatetto ucciso a Como mentre portava la colazione ai dimenticati della città. La sua storia di «sacerdote tutto di un pezzo», come l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve chiama il presbitero assassinato, gli è stata raccontata dal vescovo di Como, Oscar Cantoni, che con Bassetti ha avuto un lungo colloquio telefonico durante il quale il cardinale ha espresso il cordoglio e la vicinanza di tutta la Chiesa italiana alla diocesi “ferita”.

Eminenza, anche nel nostro Paese si muore in nome del Vangelo. Che cosa ci dice l’uccisione di don Malgesini?

Don Roberto è un martire del nostro tempo. Un tempo dove regna l’apparenza, la superficialità e l’individualismo ma in cui c’è spazio anche per i figli di Dio. Per tutta la sua vita Roberto è stato il Buon Samaritano della porta accanto e ha incarnato il Vangelo senza glosse. Ha speso tutto se stesso, fino a effondere il suo sangue, per Cristo che ha visto nei “crocifissi” di oggi. Il sacrificio di don Roberto ci ricorda che la promozione umana è tutt’una con il Vangelo e che la vita va difesa, accudita, accompagnata in ogni frangente e in mezzo alle fragilità fisiche, sociali, materiali: dal concepimento alla sua naturale conclusione.

Un prete da prendere a modello?

Sicuramente. Come ce ne sono moltissimi nel nostro Paese. Alla stregua di don Roberto, non fanno rumore, non fanno notizia. Agiscono nel silenzio, nel nascondimento, come chiede Gesù. Ma sono davvero padri e fratelli, poveri fra i poveri. Attraverso l’amato prete di Como vorrei onorare tutti i sacerdoti d’Italia che prendono sulle loro spalle i malati o le famiglie, come ad esempio hanno mostrato profeticamente nella fase acuta della pandemia, ma anche i giovani o i poveri che, anche a causa del Covid, continuano ad aumentare in modo estremamente preoccupante nella Penisola. Non è il mondo a fissare lo statuto del sacerdote, secondo le concezioni sociali. Il prete è segnato dal sigillo di Cristo e vive nel servizio. Un servizio che è completamente ispirato dalla carità del Signore. Diceva il santo Curato d’Ars: «Il sacerdote dev’essere sempre pronto a rispondere ai bisogni delle anime. Egli non è per sé». Il sacerdote è per la gente. Perciò non può restare lontano dalle preoccupazioni delle persone, soprattutto di quelle più deboli. Don Roberto ci dice che ognuno di noi è chiamato a seguire Gesù senza compromessi, dando così testimonianza della bellezza di essere cristiani in maniera radicale e della “misura alta” della vocazione cristiana. Ed è dalla vittoria della fede che nasce lo scandalo del martirio. Perché, come sottolinea il Vangelo, «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici».

Azione e contemplazione non sono in antitesi.

Mai. È la preghiera il motore. È la fonte di ogni spinta pastorale e sociale. I santi ci insegnano che davanti all’Eucaristia e alla Parola di Dio prende forma ogni gesto, piccolo o grande che sia. La voce più forte non è quella di chi grida di più: la voce più forte è la preghiera. E da qui scaturisce il desiderio di fare il bene.

Don Malgesini ci richiama anche alla convivialità delle differenze.

Il suo impegno è stato ispirato dalla carità e dalla vicinanza al prossimo. Un prossimo che non si differenzia per il colore della pelle, per cultura, per tradizione. Quando un uomo soffre, quando non ha cibo, quando non ha un tetto, quando non ha un lavoro, il cristiano è tenuto a intervenire. Voltarsi dall’altra parte significa commettere un peccato d’omissione. Don Roberto ha abbattuto quelle barriere, quegli stereotipi, quei pregiudizi che le nostre menti e la società possono creare. Ha compreso appieno che il bene comune non conosce differenze. Pertanto ritengo che l’eroico esempio di don Roberto sia un monito. È un monito a vincere l’egoismo che ci chiude in noi stessi e non ci fa vedere i bisogni degli altri.

Ma si può essere anche criticati.

Quando un discepolo del Signore incontra l’opposizione del mondo, è bene che rammenti le parole dell’apostolo Paolo: «Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro». Ci si deve vergognare del male, di ciò che offende Dio, di ciò che offende l’uomo. Ci si deve vergognare del male che si arreca alla comunità civile e religiosa con azioni che non amano venire alla luce. D’altra parte è necessario il rispetto delle regole: la legalità è imprescindibile quando si fa accoglienza e quando chi viene da lontano si ferma fra noi. La legge è garanzia per tutti.

Come essere allora accanto al prossimo?

Abbiamo appena ricordato il martirio di padre Pino Puglisi, il sacerdote di Palermo ucciso dalla mafia 27 anni fa, anche lui il 15 settembre come don Roberto, per la sua “rivoluzione evangelica” che aveva fatto tremare la criminalità organizzata. Ecco, padre Puglisi ripeteva: «Se ognuno fa qualcosa, si può fare molto». Non si può seguire Gesù con le idee, bisogna darsi da fare. Oggi domandiamoci: che cosa posso fare per gli altri, per la Chiesa, per la società? Non è tempo di aspettare. C’è bisogno di essere in uscita, come dice il Papa e come ha testimoniato don Roberto andando a cercare i più bisognosi. Occorre esserlo soprattutto in questo momento storico segnato dall’emergenza sanitaria che è già diventata emergenza sociale. Usciamo, andiamo incontro a chi è in difficoltà. Ce lo chiede la comune appartenenza alla famiglia umana. E ce lo chiede prima di tutto il Signore.

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