giovedì 17 settembre 2020
Molto schivo e silenzioso, del sacerdote ucciso a Como non esistono dichiarazioni pubbliche. Nel 2018 però scrisse le meditazioni per il Venerdì Santo in diocesi
Quando don Roberto scriveva la Via Crucis: coi fratelli lungo le strade

Ansa

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Una delle caratteristiche più coraggiose, “ostinate” verrebbe voglia di dire, che emerge dalla vita di don Roberto Malgesini, è la capacità di fare silenzio. Quello interiore naturalmente, porta d’ingresso alla preghiera. Ma anche il più banale “tacere” esteriore, che non si perde in recriminazioni e proteste, tanto meno in proclami clamorosi. Di lui non si trovano interviste, dichiarazioni, battaglie verbali. Nessuna reazione polemica neppure dopo essere stato multato, l’anno scorso, per aver portato la colazione ai senza dimora. Il suo vocabolario era la strada, la sua denuncia erano le mani usate per sollevare il bisognoso di tutto, erano gli occhi piantati negli occhi del povero per restituirgli la dignità di persona, di amico, di fratello. Non a caso per trovare anche solo qualcosa di scritto bisogna attraversare i cammini che percorreva lui, Ufianco a fianco degli ultimi cui aveva scelto di dedicare l’esistenza. Volti, voci raccolti nelle meditazioni della Via Crucis del Venerdì Santo di due anni fa, il 30 marzo 2018. La loro sintesi in un titolo dalla semplicità rivoluzionaria, “Ho visto dei fratelli....”. che poi sarebbero «le persone sole, senza fissa dimora, fragili che abitano la strada».

Ma persino qui in verità la firma di don Malgesini la si può solo intuire, perché insieme a lui i testi sono stati preparati dai volontari, soprattutto giovani che lo accompagnavano nella ricerca degli abbandonati cui assicurare una parola, una bevanda calda, una coperta. Recita la cronaca che la preghiera sulla Via Dolorosa quel Venerdì Santo a causa del maltempo si svolse al chiuso, nella chiesa di Torre Santa Maria e che vi presero parte le sei parrocchie della comunità pastorale della Valmalenco, provincia di Sondrio e diocesi di Como. Eppure a sfogliare i testi ci si trova dentro un mondo dai territori molto più larghi, popolati dalle storie di migranti, di disperati, di uomini e donne derubati di tutto. I protagonisti delle stazioni della Via Crucis sono Roberto e il suo desiderio di poter incontrare di nuovo il figlio di 4 anni, sono il ghanese Zakaria, sono Abraham e la sua canzone che racconta la fuga dalla Nigeria, sono Itohan che è straniera, immigrata, africana ma soprattutto è una ragazza. Perché il segreto sta proprio lì, nel vedere nell’altro non solo un povero e un bisognoso ma una persona.

Lo capisce e lo testimonia chi a maggior ragione oggi, malgrado i richiami di luci e lustrini, non si riconosce in una realtà che «esclude, emargina e allontana i sofferenti». Chi crede che la soluzione al disagio sociale sia tornare ad ascoltare con il cuore, che l’unica scelta davvero di giustizia sia «ripartire da chi è ultimo», fosse pure un vicino di casa o chi abita con noi. «Non esiste il benefattore e il bisognoso di aiuto. Esistono solo la fraternità, la cura e l’affetto reciproci», recita la presentazione della Via Crucis. È quella la linea di demarcazione dell’umanità, della condivisione, del Vangelo. «Ho visto emettere una ordinanza per scacciare senza tetto che chiedevano un po’ di attenzioni ai turisti e alla gente ricca che festeggiava Natale e il nuovo anno – si legge poco oltre –. Ma ho visto anche dei fratelli continuare ad aiutare gli scacciati, passando silenziosi oltre le minacce delle autorità o della maggioranza del popolo».

Per loro, al termine della preghiera, come piccolo dono e insieme richiesta di impegno, alcuni quadratini di stoffa colorata, «simbolo dell’amore e della misericordia di Dio, infinita, sconfinata, immeritata». Se cuciti insieme quei pezzettini possono formare una coperta. Con cui portare calore, affetto, comprensione a chi ne ha bisogno. Senza dire troppe parole. Anzi magari scegliendo il silenzio. Come don Roberto.

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