venerdì 3 luglio 2020
Oggi la prima tappa per l'allestimento al Santuario del Santissimo Crocifisso del Soccorso. Parla il vescovo: un'iniziativa che può diventare catechesi
Il Santuario del Santissimo Crocifisso del Soccorso

Il Santuario del Santissimo Crocifisso del Soccorso

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Piccolo o grande, artigianale o fatto in serie, il crocifisso va al cuore della fede cattolica. Esporlo, indossarlo significa, o almeno dovrebbe, riconoscere che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, morto per la salvezza di ogni uomo, e poi risorto e asceso al cielo. Un’appartenenza che il vescovo di Caltagirone, monsignor Calogero Peri ha sentito particolarmente forte durante la malattia, il Covid-19 che l’ha costretto per oltre un mese nell’ospedale “Gravina”. Sulla parete della sua stanza, infatti, campeggiava solitaria una piccola riproduzione del crocifisso di San Damiano portata lì da un diacono permanente, Francesco Arcidiacono, che lavora presso la struttura. «Era un punto di luce e colore, una presenza – spiega il presule, 67 anni, da 10 pastore della Chiesa calatina – là dove non c’erano colore e presenza ». È iniziato così un dialogo, fatto anche di domande e paure, di affidamento delle proprie sofferenze, soprattutto di ascolto e alla fine di conforto e consolazione. Di gratitudine verso l’amore di Dio e chi, dal personale sanitario ai confratelli preti, se ne faceva testimone e interprete. Un’esperienza di fede legata a filo doppio all’iniziativa che parte oggi nel santuario del Santissimo Crocifisso del Soccorso. Alle 18.15 infatti monsignor Peri celebrerà l’Eucaristia, primo atto per la costituzione di un Museo internazionale del Crocifisso che dovrebbe vedere la luce il 14 settembre. L’idea è partita dal rettore del Santuario padre Enzo Mangano che si è rivolto ad artisti, ceramisti (Caltagirone è una delle loro patrie) e donatori privati. L’invito è a manifestare, attraverso l’arte «ceramicale, pittorica, scultorea o altro» la propria «fede, la propria devozione, il proprio sentire». Questo santuario, in cui si venera un’immagine di Cristo crocifisso con santa Brigida genuflessa ai suoi piedi, «rappresenta – spiega Peri – un richiamo e un importante punto di spiritualità per il nostro territorio, un luogo dove appena arrivi senti di respirare un’aria diversa. Il punto di partenza per la bellissima iniziativa lanciata da padre Mangano è la stessa Caltagirone dove ci sono oltre 100 fabbrichette, botteghe artigianali e artistiche di ceramica».

Ma il Museo, naturalmente non vuole essere solo un’esposizione artistica.

Sarà anche l’occasione per sottolineare la centralità della croce nella nostra fede. San Paolo è molto chiaro: non mi vanterò di altro se non della croce di Cristo Gesù. Che significa amore, servizio, modello di vita cristiana, di obbedienza, di ascolto di una storia più grande di noi. La spiritualità del crocifisso, delle sue rappresentazioni, delle sue interpretazioni, la tradizione e lo studio teologico che l’accompagnano, possono diventare un elemento di catechesi costante.

E il pensiero ritorna all’esperienza personale della recente malattia e al ruolo che lo sguardo al crocifisso ha svolto durante la pandemia.

Questo riferimento può essere un’ulteriore scintilla, un richiamo perché il dialogo sul tema si possa estendere, amplificare. Più volte il Papa ha utilizzato il riferimento forte al crocifisso, basti pensare alla preghiera del 27 marzo in una piazza San Pietro vuota. Il crocifisso come segno dell’amore nudo di fronte al mistero di Dio, soprattutto al mistero della vita e della morte, è stato un punto di riferimento per tutti i credenti, che mi auguro duri anche al di là del periodo che stiamo vivendo. In questo senso il Museo può essere uno stimolo, un invito alla riflessione.

Oggi è il primo passo in vista dell’inaugurazione che dovrebbe essere il 14 settembre, nella festa dell’Esaltazione della Croce.

È una celebrazione in cui si lancia l’idea e che segna anche la riapertura del santuario a una celebrazione pubblica dopo il Covid. Spero che già a settembre l’esposizione, cui io stesso contribuirò con un certo numero di crocifissi, sia ricca, Ma ho pochi dubbi, basterà che alcuni ceramisti diano qualcosa delle loro produzioni.

Dopo la malattia è cambiato qualcosa nel suo modo di vivere la sua missione di vescovo, il servizio episcopale?

È cambiato l’atteggiamento, la disposizione, la sensibilità rispetto alla realtà. L’esperienza della malattia mi ha fatto sostare a considerare in modo differente le cose di sempre. Poi non so in che cosa questo si tradurrà, credo sia prematuro dirlo. Io ritengo che questo tempo di pandemia abbia parlato, ci abbia detto tanto, abbia gridato delle cose. Si tratta di riuscire ad ascoltarle e a tradurle in azioni pastorali diverse. Sono contrario a un ritorno pedissequo alla normalità che abbiamo lasciato, perché la storia va avanti, è apertura, bisogna essere aderenti alle urgenze, ai richiami, alle novità che ci indica. Come Chiesa abbiamo il compito di innalzare le vele, per assecondare il vento nella direzione che vorrà lo Spirito. Questo virus arriva all’inizio del millennio, di un decennio, nel momento in cui la Chiesa italiana avvia i suoi orientamenti pastorali quinquennali mentre sta arrivando nelle comunità la terza edizione del Messale Romano. Senza voler dare troppa importanza alle coincidenze temporali, credo che di casuale ci sia poco. Il terzo millennio si deve caratterizzare per una concezione, una coscienza e un vissuto di Chiesa molto diversa da quella del primo ma anche del secondo millennio.

Bisogna dare tempo e spazio al cambiamento.

O siamo capaci di accogliere questa indicazione nuova, rinnovata dallo spirito o assisteremo al declino di un mondo e di una cristianità concepita in un certo modo. L’alternativa è mettersi da subito in ascolto, vedere gli elementi germinali di questa ecclesiologia nuova, di questa prospettiva cambiata. La gente, per quello che ha vissuto, ha sperimentato un altro movimento della vita di fede. Noi abbiamo considerato una spiritualità per cui sono gli altri a muoversi verso di noi, suoniamo le campane e aspettiamo che la gente venga, mentre l’impianto, il movimento, la missione eucaristica ci porta a suonare i campanelli, ad andare in città. Noi andiamo in chiesa pensando di fare qualcosa per il Signore, spesso non abbiamo coscienza che in realtà Dio sta facendo qualcosa per noi e di noi. Su questo dobbiamo scommettere di più. Io avevo già iniziato una catechesi sistematica in diocesi sull’Eucaristia, per presentare il nuovo Messale, mi ero impegnato a scrivere tre lettere pastorali, di cui due sono pronte, perché vorrei cogliere questa intuizione, che il nuovo Messale non è solo la traduzione di un testo ma è una teologia e una coscienza ecclesiale diversa del mistero eucaristico, come fonte di ispirazione ma anche come tensione di un vissuto credente, dove cercare di imitare Gesù. Significa fare il massimo di amore, di servizio, di donazione.

Quindi l’insegnamento di fondo, ci spinge a non aspettare che gli altri vengano ma a muoverci noi..

Rimanere immobili chiedendosi quando potremo tornare a fare le cose come prima, sarebbe sbagliato. Dobbiamo fermarci per capire che cosa ci dice questo tempo ora, con quali prospettive. La gente ha acquisito una sensibilità molto diversa rispetto a tre mesi fa, oggi è concentrata sulle cose davvero essenziali, ha dovuto e deve fare delle scelte, anche economiche, impegnative, cambia il lavoro, cambia il modo di scommettersi per la rinascita e la ripresa del Paese, non tutte le cose che avevano una prospettiva riprenderanno. Abbiamo tante indicazioni, alcune preziose, altre drammatiche. Questo tempo è stato una grazia come occasione di riflessione ma anche una disgrazia per chi rischia e ha perso il lavoro. Non dobbiamo mai separare le due cose e come Chiesa, per quanto è possibile, dobbiamo fare sì che tutto concorra al bene di coloro che amano. La grande sfida riguarda quanto amore saremo capaci di metterci, ma non amore detto, raccontato, bensì amare nei fatti, nella verità.

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