Come ti vesti? Qual è il vero significato degli abiti religiosi

Per capirlo, entriamo nella millenaria storia delle confraternite con Lorenzo Cantoni, professore universitario e co-curatore della mostra "Habitus Fidei"
November 22, 2025
L’abito di una confraternita esposto nella mostra “Habitus Fidei”, che si offre al visitatore come un itinerario fra arte, storia e fede cristiana
L’abito di una confraternita esposto nella mostra “Habitus Fidei”, che si offre al visitatore come un itinerario fra arte, storia e fede cristiana
Dimmi come vesti e ti dirò come vivi la tua fede. Ne è convinto Lorenzo Cantoni, direttore dei corsi di laurea magistrale in comunicazione digitale della moda e in turismo internazionale e di una cattedra Unesco all’Università della Svizzera italiana a Lugano. Cantoni è co-curatore, assieme al collega Alessandro Tosi dell’Università di Pisa, della mostra Habitus Fidei, ospitata dal 9 maggio al 20 giugno al Museo della grafica e al Museo nazionale di San Matteo a Pisa, tra settembre ed ottobre nella chiesa e nel battistero dei Santi Giovanni e Reparata a Lucca e, dallo scorso 7 novembre fino al 23 di questo stesso mese, a Villa Ciani a Lugano. Una mostra che aiuta a entrare nella millenaria storia di migliaia di confraternite intorno alle quali, ancora oggi, nella sola Europa, ruotano circa sei milioni di fedeli. Chi, aprendo la Bibbia, si ferma alla Genesi, legge di Adamo ed Eva nudi. Dunque la grande attenzione degli uomini di Dio verso l’abito – è il pensiero che nasce – potrebbe suonare come tradimento delle origini. «Subito dopo il peccato, però, il grande racconto delle origini – obietta Cantoni – ci spiega i motivi per cui l’uomo deve vestirsi. Anzitutto per pudore: dopo la caduta Adamo ed Eva confezionano cinture di foglie di fico e, da allora in poi, tutte le comunità hanno scelto di coprire in qualche modo almeno i genitali. E poi perché gli abiti sono funzionali: abbiamo bisogno di vestiti e accessori – delle scarpe, per esempio – per poter vivere nel mondo. Infine perché gli abiti comunicano: ci vestiamo per esprimere e comunicare il nostro status, i nostri valori, l’appartenenza a certe comunità». In particolare, argomenta Cantoni «da sempre all’uomo che si presenta al cospetto di Dio è chiesta un’attenzione speciale al vestito, a che cosa indossare o non indossare. Pensiamo – nella tradizione biblica – all’ordine che Dio dà a Mosè di togliersi i sandali quando si avvicina al roveto ardente, oppure alle prescrizioni su come devono vestirsi il sommo sacerdote e i leviti, o ancora alla descrizione dettagliata dell’efod del sommo sacerdote».
Indossare abiti poveri o sontuosi? Scelte diverse, motivo anche di una infinita discussione teologica: «Gesù c’insegna a non occuparci di come vestiamo e, insieme, che saremo giudicati se avremo rivestito le persone nude. Egli non ha dove posare il capo e insieme indossa una tunica cucita tutta d’un pezzo, di tal valore che le guardie che ne eseguono la condanna decidono di non dividerla ma di tirarla a sorte… Dunque si tratta, anche nella scelta di abiti cerimoniali, clericali o confraternali, di manifestare la grandezza del Signore al cui cospetto si sta; e, al contempo, di non concentrarsi sul segno dell’abito e degli accessori, ma di rivolgersi – anche grazie a essi – a Dio stesso», osserva lo studioso. «Nel mondo confraternale, questa tensione fra manifestare apertamente l’importanza delle opere di carità e del culto pubblico – “perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli ” (Mt 5, 16) – e rimanere nel segreto – così infatti il “Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà ” (Mt 6, 4) – è affrontata grazie al cappuccio, che rende invisibile la persona che lo indossa, e insieme visibilissima la sua veste e la sua attività».
Riguardo alla scelta del colore: se guardiamo i paramenti liturgici, «indubbiamente la liturgia della Chiesa latina ha mostrato una grandissima creatività, elaborando un sistema di indumenti sacri che esprime in modo ricco l’anno liturgico e i misteri principali della fede». Di qui il verde del tempo ordinario, il bianco per il tempo pasquale e natalizio, per le feste della Madonna e dei santi non martiri. Il rosso per Venerdì Santo, Domenica delle Palme e Pentecoste. Il viola per Avvento, Quaresima, Defunti. Due sole occasioni per la veste rosacea – per la terza domenica di Avvento e per la quarta di Quaresima –, a indicare l’attesa per la solennità che si avvicina. E poi gli abiti dei religiosi: tunica, generalmente stretta in vita da una cintura o da un cordone, scapolare, cappuccio e mantello tra gli uomini. Tonaca, velo, soggolo e frontino tra le donne. Interessante anche la cocolla usata dagli ordini monastici, per sottolineare la differenza tra la vita profana nel chiostro e quella liturgica nel coro o in chiesa. «Mi viene in mente il proverbio “ L’abito non fa il monaco”, che spesso viene interpretato come un disprezzo per l’abito. Invero, la sua origine è molto diversa. Quando l’imperatore Federico Barbarossa emette la costituzione imperiale Authentica Habita, che consente ai chierici di muoversi liberamente, senza poter essere trattenuti – una specie di Schengen del XII secolo, o di precursore del programma Erasmus universitario – molti volevano essere percepiti come chierici per poterne avere i vantaggi, e si vestivano dunque come loro. Il significato originario non è dunque che il monaco/chierico deve disinteressarsi dell’abito, come di un segno irrilevante, ma al contrario che è l’unico ad avere il diritto d’indossarlo».
Oggi molti istituti non adottano più un vestito proprio. L’abito religioso resta allora un vestito semplice, soprattutto per le donne, o la talare o il clergyman: «Non è una novità. Anche i gesuiti, per prendere l’ordine cui apparteneva papa Francesco, indossano abiti solo in minima misura dissimili rispetto a quelli del clero ordinario (“secolare”). Se pensiamo invece agli agostiniani – l’ordine a cui appartiene papa Leone XIV – nella loro regola leggiamo: “Il vostro abito non sia appariscente; non cercate di piacere per le vesti ma per il contegno” (cap. 4)». Discorso a parte meritano le confraternite che, ricostruisce il professor Cantoni, «hanno sviluppato nel tempo una tunica, o sacco, stretto in vita da un cingolo, cui si possono aggiungere una mantellina, il cappuccio, e un medaglione, abitualmente con l’immagine del santo o santa a cui la confraternita è dedicata». L’abito religioso vuole comunicare. Ma il popolo riesce a coglierne il messaggio? «Dovremo anzitutto avere ben in chiaro che cosa si vuole comunicare, l’altezza del mistero divino e della missione corrispondente; e poi trovare le modalità più idonee per renderlo “visibile” ai nostri contemporanei, in contesti geografici, storici e culturali differenti. Non si tratta dunque di cambiare per cambiare, ma di esprimere in modi sempre più adeguati il mistero della fede. Mi viene in mente il proverbio “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Alcuni dibattiti in merito agli abiti religiosi rischiano di essere disquisizioni sulle dita piuttosto che una riflessione su come indicare al meglio la luna…», conclude.

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