Grazie al teatro la Bibbia entra in carcere

Nei laboratori dell'istituto di pena "Due Palazzi" si intrecciano storie sulla Sacra Scrittura con quelle dei reclusi
August 21, 2025
Grazie al teatro la Bibbia entra in carcere
Siciliani | Ambito di Abel Grimmer, "Torre di Babele", fine XVI -inizio XVII secolo, Pinacoteca Nazionale, Siena
Dal 2005 curo la direzione artistica di “Teatrocarcere Due Palazzi” alla casa di reclusione di Padova. Al centro della progettualità vive il concetto di recupero della relazione come presupposto all’inclusione sociale, sia tra le persone detenute che tra la realtà carceraria e l’esterno mediante attività artistiche, culturali e di valenza civile. L’elemento innovativo è l’approfondimento e l’avvicinamento, tramite le pratiche teatrali, alla giustizia riparativa, tanto da individuare il teatro come spazio di mediazione sociale e di sensibilizzazione ai temi che ne sono alla base.
Un aspetto che caratterizza l’attività teatrale è l’acquisizione delle narrazioni di origine biblica come tema artistico. Anche dal punto di vista del valore antropologico che assumono, quindi accessibili a persone di cultura e di religioni diverse come sono nella realtà carceraria. Il teatro e i temi biblici diventano occasione non tanto o non solo per fare uno spettacolo, ma per creare delle risonanze fra le esperienze di vita delle persone detenute e le vicende esistenziali che vengono proposte nella narrazione biblica. La parola biblica irrompe nelle carceri come “parola viva” capace di generare rinascita quando viene tradotta in gesto, voce e corpo. Nei laboratori “Nel segno di Giona” e “Da Babele alla Gerusalemme celeste” i detenuti del Due Palazzi incarnano il testo, rivelando i nodi esistenziali lì nascosti.
Il testo sacro non resta confinato a una lettura accademica. Diventa esperienza concreta di meditazione, che precede l’azione, e quindi con potenzialità per una trasformazione interiore. La narrazione si nutre anche dei monologhi autobiografici che nascono in risonanza: Giona nel ventre della balena è per i detenuti l’esperienza di isolamento assoluto, quando devono venire a contatto con le proprie interiorità e contraddizioni e si trovano a rivedere la propria storia di vita. Il profeta riluttante diventa figura paradigmatica: allontanatosi dalla chiamata, si trova sospeso nel buio del ventre, costretto a guardarsi dentro. Lì, “isolamento assoluto” significa confronto con la propria coscienza, riconoscimento delle ferite e desiderio di rinascita.
Anche lo spettacolo “Da Babele alla Gerusalemme celeste” sottolinea la medesima dinamica: Babele e la Gerusalemme celeste evocano la contrapposizione tra male e bene. Due aspetti che coesistono anche in ognuno di noi. Possiamo assecondare la costruzione di una città come Babele oppure tentare di edificare la città con un volto Altro. Tra la prima città, il cui nome è Enoch, figlio di Caino, e la città promessa da Dio, il cui nome è «il Signore è là» c’è un cammino, un percorso, da compiere da parte dell’uomo.
Nei percorsi delle persone detenute emerge il guardare a sé stessi in autenticità, rimettersi profondamente in discussione. C’è il desiderio di cambiamento in bene di una vita che nel passato, per molti di loro, non ha offerto opportunità. Nello spettacolo i brani i autobiografici testimoniano questo vibrare. La scelta di alternare narrazione biblica e testimonianza personale trasforma il palco in luogo di dialogo tra il testo antico e la vita concreta. Il pubblico sperimenta così la vicinanza del sacro, non come dottrina astratta, ma come parola capace di toccare il cuore.
Per lo spettatore si apre la domanda: “Come accogliamo la persona detenuta che sta attivando un percorso di cambiamento?” Si tratta così di tenere in vita dei semi di cultura che parlano di pace, dialogo, condivisione, comunità. Il teatro in questo momento storico può fare questo: ricreare comunità attorno ad alcuni temi urgenti e condivisi.
La “rinascita in carcere” non è mera retorica. Il concetto di giustizia riparativa – sottolineato come orizzonte etico-teatrale – chiede di progettare “la possibilità di una nuova vita” per chi ha sbagliato, occupandosi allo stesso tempo delle vittime e delle ferite sociali. Il metodo non è esclusivamente teatrale, ma profondamente esistenziale: la Parola diventa azione, l’ascolto si fa condivisione, il rito della rappresentazione genera comunità. La scelta di affidare ai detenuti stessi i ruoli di attori è radicale: chi ha conosciuto il dolore, proprio e altrui, impara a estendere misericordia, chi ha vissuto l’isolamento scopre la forza della relazione con l’altro da sè. In definitiva, “Nel segno di Giona” e “Da Babele alla Gerusalemme celeste” suggeriscono che la Bibbia non è un testo da spiegare, ma una “parola ribelle” con una sua forza autonoma che cammina tra le sbarre, infrange la solitudine, provoca trasformazioni e semina nelle stanze più oscure il germe della speranza.
La parola biblica, una volta pronunciata, non torna indietro. Scrive il profeta Isaia (55,10-11): «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata».
Direzione artistica “Teatrocarcere Due Palazzi”, Padova
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