venerdì 15 settembre 2017
Da tre anni alla guida della diocesi di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia: «A noi è chiesto di piantare semi di futuro»
Il vescovo Marconi tra i fedeli della sua diocesi (Stefano Salvucci)

Il vescovo Marconi tra i fedeli della sua diocesi (Stefano Salvucci)

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Quella di Macerata-Tolentino Recanati-Cingoli-Treia è una diocesi ricca di storia. Ha dato i natali a Giacomo Leopardi, padre Matteo Ricci e Pio VIII. Un anno fa è stata colpita seriamente dal terremoto che ha squassato l’Italia centrale. Dal 2014 è vescovo monsignor Nazzareno Marconi, 59 anni, biblista di letture eclettiche: dai Padri della Chiesa a don Milani; da don Zeno di Nomadelfia a monsignor Lefebvre («aveva tante idee sballate, ma non era stupido»); dal cardinale di Genova Giuseppe Siri a quello di Torino Michele Pellegrino. Ma soprattutto pastore, temprato dall’esperienza in parrocchia. Lo incontriamo nell’episcopio di Macerata.

Eccellenza, come ha saputo della nomina? Avevo finito il mandato da rettore del Seminario regionale ed ero tornato in diocesi, a Città di Castello, come viceparroco ed insegnante. Stavo svuotando la lavatrice quando mi suonò il cellulare. Era la nunziatura che mi convocava a Roma. Con urgenza, dal che ho capito che le cose si mettevano male…

In effetti le comunicarono la nomina. Sì. E qui è subentrato un difetto dei seminaristi del Romano. Siamo stati educati ad una grande devozione alla Madonna e ad una venerazione al Papa, chiunque sia il Papa. Al Papa si obbedisce. Punto.

Lei ha avuto una formazione ecclesiastica romana, accademica come biblista, ma ha potuto anche svolgere consulenze per dei film per la tv. In che modo queste esperienze l’aiutano nella sua missione? Dopo aver fatto per tre anni l’assistente al Romano, sono tornato in diocesi dove ho fatto per nove anni il vice e per otto il parroco. Questa è la stata la mia formazione fondamentale, anche se ho svolto altri incarichi a livello diocesano. Tanto che quando monsignor Chiaretti e poi l’allora monsignor Bassetti mi chiesero la disponibilità a fare il rettore al Regionale mi spiegarono che la scelta era caduta sulla mia persona soprattutto per la mia esperienza concreta nella vita parrocchiale perché spesso ora i ragazzi che vanno in Seminario provengono da gruppi e movimenti e non, come una volta, dalla vita parrocchiale. E quindi è meglio avere formatori che abbiano fatto quell’esperienza.

Lei è in diocesi da tre anni. Come si è mosso? Per prima cosa ho cercato di capire. E ho scelto per motto episcopale una frase del Libro dei Re, quando Salomone si rivolge a Dio e dice: 'Dona al tuo servo un cuore docile'. Mi piaceva perché la parola ebraica tradotta in 'docile' letteralmente vuol dire 'in ascolto'. A me piace molto chiacchierare, quindi ascoltare è uno sforzo. Ma una volta arrivato qui ho voluto innanzitutto ascoltare e vedere. Poi dopo il primo anno - perché più di un anno ad ascoltare non ci resisto… - ho detto: 'cominciamo a camminare…'.

Quale cammino che sta proponendo? Puntare a ciò che è essenziale per trasmettere la fede. Il problema di oggi è la fede. Le altre cose vengono dopo. E non è neanche nostro compito specifico proporle. Ognuno deve fare quello che sa fare e quello che il Signore gli chiede di fare. A me come vescovo mi chiede di aiutare la mia gente a crescere nella fede. Non posso essere il politico, quello che risolve i problemi del- l’economia, o chissà che.

Quindi? La fede comincia dall’amore concreto, quindi il primo anno ci siamo concentrati sulla carità. Ma la fede comincia anche dalla conoscenza della Parola di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, ecco quindi questo secondo anno dedicato alla catechesi. La fede cresce quando viene pregata, così sarà il terzo anno, dedicato alla liturgia.

Quali sono le gioie che ha incrociato nella sua missione da vescovo? Sicuramente il vedere che c’è ancora tanta gente, spesso semplice e umile, che ha una fede schietta, di qualità. Ho incontrato persone capaci di portare croci pesantissime con profonda serenità del cuore. La fede si pesa sulla bilancia della croce. Queste persone mi hanno veramente edificato.

E le pesantezze? La fatica di vivere un tempo di Chiesa in cui si rischia di guardare sempre al passato, a come erano le cose… Credo che a noi è consegnato non di piangere sul passato ma di piantare dei semi che spunteranno nel futuro. Probabilmente nei miei, se Dio vorrà, quindici anni da vescovo qui non vedrò i frutti, ma se se ho seminato bene con l’aiuto della mia gente qualcuno ne mangerà i frutti.

A livello civile? A questo livello penso che il vescovo deve avere innanzitutto un comportamento civile. Deve cioè costruire dei rapporti di rispetto e di chiara distinzione. Quando sono arrivato una delle prime cose che ho detto agli amministratori è stato: non faccio campagne elettorali per o contro nessuno, non scendo al livello degli scontri partitici, mi interessa la politica nel senso della polis, cioè dell’attenzione alla città. Se vedo che non ci sono intrallazzi lobbistici la mia serena collaborazione è piena.

Il terremoto come ha inciso nella sua missione? Come un grosso stop. Uno progetta, programma insieme un percorso da svolgere con linearità, e di botto mi ritrovo con la Cattedrale e le concattedrali chiuse; con tutte le chiese significative di Macerata e Tolentino inagibili; con alcune comunità che si sono ritrovate senza edificio parrocchiale La comunità cristiana non è fatta solo dall’edificio. Ma l’edificio è importante per la comunità ecclesiale ma anche per quella civile, perché costituisce un punto di riferimento e di aggregazione, particolarmente nei momenti di smarrimento che sono inevitabili dopo un evento drammatico come il terremoto.

La ricostruzione come va? Nel desiderio, giusto, di evitare corruzione e imbrogli, si è creduto che la burocrazia e la legge salvassero il mondo da questo. Se si crea un clima in cui nessuno si prende le sue responsabi-lità, se tutti, nel terrore di essere inquisiti, si appoggiano ad una applicazione puntigliosa delle norme, allora si rischia di rimanere fermi. La corruzione si combatte sì con la legge, che però va accompagnata dalla costruzione di una società di persone che vivono il valore dell’onestà, del rispetto reciproco. E poi mi preme ricordare che questa è una terra di grandissima imprenditorialità, i marchigiani sono persone capaci. E devono essere coinvolte nella ricostruzione. Se pensano di guidare questa ricostruzione da Roma, in base a leggi e a norme, andranno a sbattere contro il muro.

Macerata è la città di Matteo Ricci, cosa vuol dire per lei? Ho conosciuto padre Ricci durante un convegno sull’inculturazione seguito alla Gregoriana negli anni ’80. La fede si incarna, e diventa carne, sangue e cultura di un popolo. Questa è una grande sintonia che ho con papa Francesco. I popoli e le culture sono la ricchezza del mondo. Il mondo non sarà bello quando sarà tutto uguale. La globalizzazione se è globalizzazione dell’uguale è un disastro. La diversità, che non vuol dire disparità, è una ricchezza. La sfida è incarnare la nostra fede, che è una, nelle mille diversità dei popoli e delle culture. Matteo Ricci questo lo aveva capito. Ed è un messaggio importantissimo oggi.

Quali sono oggi i legami della diocesi con la Cina? Sono forti. A cominciare con il nastro con il mio motto in cinese, donato da una famiglia maceratese neocatecumenale ora in Cina, che tengo in bella mostra qui in ufficio. Poi ci sono tanti imprenditori che lavorano con quel grande Paese. Abbiamo lì anche qualche nostro sacerdote fidei donum che proviene dal nostro Seminario Neocatecumenale.

Lei è il vescovo della diocesi dal nome più 'lungo' d’Italia: Macerata-Tolentino- Recanati-Cingoli-Treia. Ha sperimentato quindi l’effetto degli accorpamenti che vennero fatti negli anni Ottanta. Cosa pensa a riguardo? Guardando alla grandezza media delle diocesi nel resto del mondo, ritengo che la Chiesa italiana non vada certamente ridotta a 20 diocesi. Ma che nelle Marche, ad esempio, ce ne siano 13 e che fino a non molti anni fa ce ne erano più del doppio, fa riflettere. Cancellare la memoria storica no. Ma non dobbiamo diventare un museo.

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