mercoledì 11 marzo 2015
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Il Papa torna in confessionale. Venerdì pomeriggio, nel corso della celebrazione penitenziale nella Basilica di San Pietro che, a partire dalle 17, darà il via all’iniziativa “24 ore per il Signore”, Francesco impartirà il sacramento della Riconciliazione a sei penitenti, scelti appositamente di tutte le età – dagli adolescenti ai nonni, compresa una mamma di famiglia e una suora, poiché questo è l’anno della vita consacrata – per sottolineare che la Confessione è davvero per tutti. Come del resto l’iniziativa lanciata dal Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione vuole ricordare. Perciò il presidente del dicastero vaticano, l’arcivescovo Rino Fisichella, fa notare: «Il Papa non si stanca di ribadire che il nostro è il tempo della misericordia e che la Chiesa deve essere segno di questa misericordia. Dove sperimentare, dunque, più da vicino la tenerezza di Dio, se non nel confessionale?». Perché collocarla in questo preciso frangente temporale? Perché la Parola di Dio della quarta domenica di Quaresima esprime proprio il tema della misericordia. Domenica a Messa si proclamerà un brano del Vangelo di Giovanni che dice: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». E nella seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Efesini, san Paolo parla apertamente di «Dio ricco di misericordia», che è anche il tema delle “24 ore per il Signore”. E il Papa, come l’anno scorso, confesserà alcuni fedeli. Che valenza ha questo gesto? Non dimentichiamo che il Santo Padre in quella occasione si è anche confessato e non mi meraviglierebbe che lo facesse anche quest’anno. Penso che, entrando in confessionale, egli da un lato voglia ricordare ai sacerdoti l’importanza di dedicare del tempo a questo sacramento, in modo che i fedeli possano sempre avervi accesso; e dall’altro ci indichi anche il modo con il quale essere confessori. Cioè accogliere con un sorriso, essere ministri della misericordia e non giudici inesorabili. Come ha scritto nella Evangelii gaudium, non bisogna mai dare l’impressione che il confessionale sia come la dogana, dove il penitente deve pagare chissà quale dazio, ma lo spazio dove si sperimenta maggiormente la tenerezza di Dio. C’è un «effetto Francesco» in termini di aumento delle confessioni? Posso dire per esperienza personale che diversi penitenti in questi due anni mi hanno detto: «Sono venuto a confessarmi perché ho sentito papa Francesco che invitava a non aver timore». E penso che anche tanti altri sacerdoti possono ripetere la stessa cosa. L’accento che fin dall’inizio del suo Pontificato egli sta mettendo sulla misericordia ha anche l’effetto di far comprendere che non si tratta solo di confessare le proprie colpe, ma di riesaminare la propria esistenza, ritrovandovi quella presenza di Dio che è sorgente di fede, di speranza e di testimonianza della carità. Francesco parla spesso anche del senso del peccato e della presenza del Maligno. Questo ha attinenza con il tema della misericordia? È in un certo senso l’altra faccia della medaglia. In un’epoca in cui chi parla del diavolo suscita sorrisini di commiserazione, il Papa ci mette in guardia da un pericolo reale e ci aiuta a ritrovare il senso del peccato che deve spingerci a cercare la misericordia di Dio. Come ha detto a una ragazza scout durante la visita alla parrocchia di Tor Bella Monaca, Dio non manda nessuno all’inferno, siamo noi che decidiamo di andarci. Possiamo dire che il sacramento della Riconciliazione ha valenza sociale, accanto a quella intima? Certo. Anche il peccato ha una sua dimensione sociale, in quanto ci esclude dalla comunità. Penso, infatti, che uno degli elementi di crisi di questo sacramento sia stata proprio la perdita della consapevolezza che la fede cristiana è esperienza di comunità. Per cui cadendo nella trappola dell’individualismo, non ci vediamo più nella relazione con gli altri e diventiamo giudici arbitrari della nostra esistenza. Se il peccato ci isola, la riconciliazione ci fa recuperare la gioia di far parte di una comunità e di sentirci responsabili per essa, comportandoci in maniera coerente.
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