Parla Muti: «Ragazzi, la musica insegna a vivere»

A 84 anni il grande Maestro è ancora impegnatissimo con i giovani dell’Orchestra Cherubini e dei Conservatori: «Per me è un impegno civile irrinunciabile, non dirigo più per il successo. Abbiamo grandi talenti, dobbiamo investire sulle nuove generazioni per far ripartire il Paese»
November 30, 2025
Il Maestro Riccardo Muti con la rettrice Elena Beccalli alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano
Il Maestro Riccardo Muti con la rettrice Elena Beccalli alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano
L’Aula Magna dell’Università Cattolica trasformata in una grande sala da concerto. Un’orchestra – quella intitolata a Luigi Cherubini – composta da diverse decine di giovani. E sul podio un direttore d’orchestra di fama internazionale, Riccardo Muti. Ma soprattutto una lectio magistralis in parole e musica che ha affascinato ospiti, docenti, personale tecnico-amministrativo e studenti riuniti per la cerimonia di apertura del nuovo anno accademico dall’ateneo di largo Gemelli, che s'è celebrata venerdì 28 novembre. Una cerimonia straordinaria nelle forme e nei modi, destinata a restare nella storia delle aperture in Cattolica.
Non gli è mai piaciuto stare solo sul podio. «Lì si sale per fare musica». Non ha mai voluto fare lezione dalla cattedra musicale per eccellenza, quella pedana verso la quale tutta l’orchestra guarda. «In teatro il posto migliore lo ha il direttore, perché il podio è proprio al centro della sala e da lì può vedere meglio di chiunque altro quello che succede in scena» ricorda sempre citando Arturo Toscanini. Sul podio si fa musica. Ma per dialogare, alla pari, con gli altri musicisti, per “concertare” con loro un’esecuzione occorre stare tra i leggii. Così, spesso, quando veste i panni del “maestro” – e non è solo un titolo, anzi, è esperienza e vita – nella sua Italian opera academy gira tra i musicisti, si siede accanto al pianoforte dei ragazzi che vogliono fare il «mestiere ormai praticamente in disuso del maestro collaboratore», sta un gradino sotto il podio dei giovani direttori che da tutto il mondo vengono per imparare «quel lavoro artigianale che è quello del direttore d’orchestra. Che io ho imparato dai miei maestri. E che cerco di trasmettere alle nuove generazioni». Suggerisce, corregge, stimola, sprona. Ecco il dialogo che Riccardo Muti non smette mai di intessere, quello con le giovani generazioni. Un’alleanza necessaria. «E che sento – racconta sempre il direttore d’orchestra – come un dovere civile». Nato a Napoli nel 1941 Muti. «Solo perché la mamma, napoletana, da Molfetta, in Puglia, faceva il viaggio per partorire noi figli nel capoluogo partenopeo». Cresciuto in Puglia. «Dove sono le mie radici musicali» tra la Santa Allegrezza, il canto di Natale che i mendicanti intonavano bussando alle porte, e quel concerto, nel Seminario regionale. «Avevo undici anni, suonavo il violino e – ricorda il direttore, non senza commozione – nella foto che immortala quel momento si vede anche un allora giovane seminarista, don Tonino Bello».
Radici musicali e spirituali che oggi, maestro Muti, vuole trasmettere alle nuove generazioni, nella sua Italian opera academy, ma anche nelle molte occasioni che la vedono dialogare, in musica, con i ragazzi usciti dai nostri Conservatori.
Alla mia età, a 84 anni compiuti, mi mette profonda tristezza e anche tanta rabbia vedere come molti ragazzi che si diplomano con il massimo dei voti e con la lode, debbano appendere lo strumento al chiodo perché per loro non c’è un posto di lavoro, non esiste uno sbocco professionale. In Corea del Sud, nella sola città di Seoul, lo dico sempre senza stancarmi di fare questo esempio, ci sono ventidue orchestre sinfoniche. In Italia abbiamo assistito alla colpevole chiusura delle Orchestre Rai di Milano, Roma e Napoli. E tanti teatri restano chiusi. Penso che debba essere un dovere dello Stato dare un posto a questi ragazzi che escono dai nostri Conservatori.
Come spesso capita il privato arriva dove non arriva il pubblico… è il caso dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini che lei ha voluto portare nell’Aula magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per l’apertura del nuovo anno accademico.
La Cherubini festeggia vent’anni. In questi due decenni sono centinaia i ragazzi che sono passati tra i leggii, perché il nostro percorso prevede un periodo di tre anni, ma poi devono fare loro il salto. Molti dei musicisti che hanno suonato con me sono ora in importanti formazioni italiane ed europee. Ma sono tanti, troppi, quelli che hanno dovuto rinunciare alla professione. E questa è una sconfitta per l’Italia.
Lei cosa insegna ai ragazzi della Cherubini, ma anche ai molti musicisti che incontra nei suoi viaggi e nelle sue tournée?
Non voglio insegnare, attenzione, ma trasmettere qualcosa che c’era prima di me, che io ho ricevuto e che voglio tramandare perché non muoia. La grande tradizione dell’opera italiana. Voglio trasmettere quello che ho imparato dai miei maestri, ma anche dalle orchestre con le quali ho lavorato, perché dai musicisti con i quali si lavora si impara sempre qualcosa, tanto più se sono i Wiener o i Berliner, i musicisti della Chicago symphony o delle grandi formazioni italiane. Antonino Votto, uno dei miei maestri, fu il primo assistente di Toscanini che suonò il violoncello (lo faceva per necessità, per guadagnare) con Verdi sul podio. Io sono parte di questa catena che arriva direttamente da Verdi. E che deve continuare. Per questo cerco di trasmettere cose che sui libri di direzione d’orchestra non si trovano».
Lo diceva lei, a luglio ha compiuto 84 anni. Ma chi glielo fa fare, con tutte le soddisfazioni e i successi della sua carriera, di essere instancabile in questa che sembra una lotta contro i mulini a vento?
Per me è un impegno civile irrinunciabile: alla mia età non dirigo più per l’applauso o per rincorrere il successo, ma posso permettermi di dedicarmi a progetti che mi stanno a cuore. Lavorare con i ragazzi della Cherubini, con quelli dei Conservatori, ma anche, come è capitato, con quelli delle bande calabresi o con gli oltre tremila corsiti che a inizio giugno hanno affollato il Pala De André di Ravenna per cantare insieme Va’ pensiero, O Signore dal tetto natio e Patria oppressa, cori verdiana che sono parte del nostro dna, è per me fonte di energia e di speranza. Sentendomi profondamente italiano credo nelle risorse del nostro Paese e mi adiro quando personaggi non italiani ci indicano la strada da seguire: abbiamo grandi talenti a disposizione e penso che i giovani siano la risorsa su cui investire per far ripartire il Paese. La disciplina e l’entusiasmo che trovo sempre sono un chiaro segnale.
La musica, allora, ha anche un grande valore sociale?
La musica aiuta a costruire una strada per un futuro diverso, educa alla bellezza e all’armonia. Suonare insieme, poi, è una scuola fondamentale per imparare le regole del vivere civile. Un valore sociale e culturale, naturalmente, perché non è vero che i ragazzi sono disinteressati alla musica: occorre orientarli nella maniera giusta, educarli e guidarli con mano salda. Una strada non semplice, certo, ma che vale la pena percorrere. Citavo l’esperienza con i tremila coristi di Ravenna che ripeteremo il prossimo anno e sempre nel segno del motto di Sant’Agostino Cantare amantis est, cantare è proprio di chi ama.
A proposito del santo di Ippona, tra poco, il 12 dicembre, suonerà in Vaticano davanti al primo Papa agostiniano, Leone XIV.
Avevo auspicato che la musica sacra potesse tornare in Vaticano e l’auspicio si è avverato. Mi farà molto piacere incontrarlo, lui è di Chicago e io, dopo averla guidata per anni come direttore musicale, ora sono direttore emerito a vita della Chicago symphony orchestra. Con l’Orchestra Cherubini e il coro della Cattedrale di Siena saremo in aula Paolo VI per eseguire la Messa per l’incoronazione di Carlo X di Luigi Cherubini. Abbiamo un grande patrimonio dal punto di vista della musica sacra, da Orlando di Lasso a Giovanni Pierluigi da Palestrina, ma nelle chiese tante volte si favorisce un altro genere. La grande storia della musica è dovuta proprio a quello che la Chiesa ha fatto. Non capisco perché una volta c’erano Mozart e Bach mentre ora si va avanti a canzonette: così non si ha rispetto per l’intelligenza delle persone. Anche l’uomo più semplice e lontano dalla fede, sentendo l’Ave verum mozartiana può essere trasportato verso una dimensione spirituale. Ho espresso più volte la mia forte irritazione per questo sia a Papa Francesco che a Papa Benedetto XVI.
Il 12 dicembre in Vaticano, in concomitanza con il concerto davanti a Papa Leone, le sarà conferito il Premio Ratzinger.
L’ultima volta che ho diretto in aula Paolo VI c’era lui ad ascoltarmi. Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente e di incontrarlo più di una volta. L’8 maggio del 2012, in occasione del settimo anniversario della sua elezione a Pontefice, diressi un concerto in aula Paolo VI con orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma; eseguimmo il Magnificat di Antonio Vivaldi e lo Stabat Mater e il Te Deum di Giuseppe Verdi. Al termine dell’esecuzione Benedetto XVI improvvisò una lectio magistralis sulla lezione di questi due grandi autori, dimostrando cosa significa avere una cultura musicale e ancora di più credere nella potenza della musica. Quel concerto e quelli diretti in Vaticano davanti a Giovanni Paolo II e a Paolo VI restano impressi in modo indelebile nella mia memoria».

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