L'antimafia che fa male alle mafie: due storie concrete

Un campetto da calcio a San Luca su un’area confiscata alla ‘ndrangheta, le arance Navel nella Piana di Gioia Tauro: l'azione sulla 'ndragheta. E una reazione "che parla"
December 19, 2025
L'antimafia che fa male alle mafie: due storie concrete
Il campetto da calcio realizzato nel piccolo paese aspromontano di San Luca su un’area confiscata alla ‘ndrangheta
L’antimafia sociale dei fatti è quella che dà i migliori risultati. Sembrerebbe ovvio ma non lo è. Troppe le parole e molte meno le realizzazioni concrete. Certo le parole servono, come invitava a fare Paolo Borsellino. «Parlate di mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene». Parole chiare, documentate, non rituali e retoriche. Denunce e analisi servono ma devono seguire i fatti. «Noi creiamo vuoti, tocca ad altri riempirli», dicono spesso magistrati e forze dell’ordine. Tocca alle istituzioni, alla politica, al mondo associativo, alle imprese, alla società responsabile. E alla Chiesa che in alcuni territori è protagonista di iniziative concrete. Che producono risultati ma anche le reazioni mafiose. Segno che vanno nel senso giusto di togliere spazi e consenso ai clan. Due storie ho raccolto in questi ultimi giorni in Calabria.
La prima è a San Luca, piccolo paese aspromontano, centro del narcotraffico internazionale. Simbolo del potere e anche della violenza mafiosa, attualmente sciolto per la terza volta per condizionamento mafioso. Lo scorso 5 dicembre la commissione prefettizia che amministra il Comune, ha consegnato alla Diocesi di Locri-Gerace un campetto da calcio realizzato su un’area confiscata alla ‘ndrangheta, grazie a un finanziamento del ministero dell’Interno. L’impianto è accanto a una villa confiscata anch’essa assegnata alla diocesi che l’ha affidata alla parrocchia di Santa Maria della Pietà. Ospita l’oratorio, al quale partecipano oltre 200 bambini. L’ennesima “opera segno” su un bene confiscato che vede protagonista la diocesi e il suo vescovo, don Franco Oliva. Altri 11 beni tolti alla ‘ndrangheta, e che nessuno voleva per paura o “rispetto”, ospitano ora centri di aggregazione giovanile, sedi scout Agesci e Masci, associazioni, cooperative sociali, e perfino uno stabilimento balneare ristrutturato con fondi della Cei e destinato soprattutto per minori a rischio. La Diocesi promuove una rete, fondamentale per sostenere queste iniziative, il “noi” che vince sulle mafie. Che però non si arrendono, perché queste iniziative fanno male, perché dimostrano che è possibile cambiare e realizzare un progetto di vita diverso. E allora i clan reagiscono.
È l’altra storia calabrese che ho raccolto, sempre in provincia di Reggio Calabria ma sul versante tirrenico, Piana di Gioia Tauro. Qui sta vivendo un anno pesante la cooperativa sociale Valle del Marro, nata 21 anni fa dalla collaborazione tra Libera e la Diocesi di Oppido-Palmi col sostegno del Progetto Policoro della Cei per l’imprenditorialità giovanile al Sud. In 5 mesi ha subito ben 8 atti criminali, gli ultimi, pochi giorni fa, tre furti per un totale di 260 quintali di dolcissime arance Navel, pronte per essere raccolte e consegnate a Unicoop Firenze e ai Gruppi di acquisto solidale. Un danno di più di 30mila euro che si aggiunge ai 50mila provocati dall’incendio a luglio di 800 ulivi e dal danneggiamento di impianti irrigui. Il furto ha tutta l’aria di un’azione organizzata, perché per raccogliere e portare via una tale quantità di frutti servono non meno di 10-15 persone e mezzi adeguati. C’è dietro una strategia? La cooperativa, nel passato vittime di molte altre intimidazioni, è cresciuta ed è diventata un simbolo di cambiamento. «Cambiare per restare, restare per cambiare», era lo slogan dei ragazzi che 21 anni fa le diedero vita col loro parroco don Pino De Masi e il convinto sostegno del vescovo Luciano Bux. Coltiva poco più di 100 ettari confiscati alle più potenti e imprenditoriali cosche della ‘ndrangheta. Agrumi, kiwi, peperoncino, grano e olive. Tutto rigorosamente in biologico certificato, dando lavoro a 35 lavoratori tra i quali soggetti svantaggiati e 15 immigrati, tutti con regolare contratto. I soci erano scout e animatori parrocchiali, oggi sono un’azienda agricola modello chiamata a testimoniare la propria esperienza alle Settimane sociali, testimonial della campagna per l’8xmille della Cei, invitata nel 2015 all’incontro di Papa Francesco coi “gesti concreti” del Policoro. Lavoro vero e pulito, una risposta a ‘ndrangheta e fuga dei giovani. «Liberi di esserci e di viverci» è uno dei loro slogan. E la ‘ndrangheta reagisce. «Vogliono che falliamo e ce ne andiamo. Ma noi continuiamo a voler restare per cambiare», mi hanno detto, aggiungendo però una richiesta di aiuto, soprattutto alle istituzioni. «La posta in gioco è altissima, e non c’è tempo da perdere. Dietro al nostro lavoro non c’è solo la produzione agricola, ma la dignità di braccianti liberati da condizioni di sfruttamento, e il benessere di famiglie emancipate da situazioni di estrema difficoltà. C’è un impegno sociale per educare i giovani a rifiutare la mentalità mafiosa e a credere nell’etica individuale e collettiva». Raccogliere il loro appello è un dovere. Per continuare a dire “no” alle mafie.
Gli alberi di arance Navel nella Piana di Gioia Tauro
Gli alberi di arance Navel nella Piana di Gioia Tauro

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