A Hebron, in Cisgiordania, l'occupazione israeliana è sempre più soffocante
Dall'inizio della guerra, sono cresciuti gli attacchi ai palestinesi. Fakhori: «I coloni sono più aggressivi e l'economia è ferma: lanciano acido sui negozi»»

Mohammed Fakhori osserva un nugolo di soldati israeliani entrare in una casa palestinese. «Succede sempre così: si introducono senza un mandato o senza chiederci alcun permesso per fare controlli». È un sabato come un altro a Hebron, in Cisgiordania, dove il commerciante ha vissuto tutti i suoi 32 anni: una dozzina di militari fa da scudo a un centinaio di coloni fuori dalla zona H2, il cuore della città dove dal 1997 vivono 800 ebrei a stretto contatto con circa 36mila palestinesi, bloccati nei movimenti e separati tramite cancelli, filo spinato e checkpoint dal resto della città, la più vasta H1. Ogni settimana, i coloni escono dalla zona H2 e bloccano, scortati, la vita dei palestinesi che vivono nella “città vecchia”: i negozi sono costretti a chiudere per gran parte del pomeriggio e nessuno torna a casa prima del termine del corteo. I soldati puntano il fucile al corpo dei palestinesi che si avvicinano troppo ai coloni. «Ogni giorno sperimentiamo violenze di questo genere, non solo il sabato – racconta Fakhori –. Vivo vicino all’insediamento con i miei due figli e, dall’alto, ci lanciano pietre, rifiuti e acido. Fanno di tutto per farci andare via, ma io voglio resistere». Il commerciante sostiene che dall’inizio della guerra a Gaza, lo scorso 7 ottobre 2023, le violenze dei coloni nella “città vecchia” siano aumentate. Duranti i primi mesi di conflitto, i palestinesi residenti nella zona H2 «hanno vissuto chiusi in casa con la paura anche di aprire la finestra».
E chi lavorava nelle case vicine, spesso, ha dovuto rinunciare alla propria attività: «Il mercato storico dello yogurt è stato completamente chiuso – racconta Fakhori –. I coloni hanno tentato di bruciare con il gas un negozio vicino al mio e anche io sono stato costretto a chiudere l’attività, pur avendo una famiglia a cui dare da mangiare. Non ho mai vissuto un giorno facile qua, ma oggi è tutto più difficile». I primi insediamenti dei coloni arrivarono nel centro di Hebron nel 1979, ma fu il 25 febbraio 1994 a stravolgere la vita dei palestinesi nella città del sud della Cisgiordania: quel giorno Baruch Goldstein, statunitense israeliano, aprì il fuoco all’interno della tomba dei Patriarchi provocando 29 morti e 125 feriti tra i musulmani riuniti in preghiera. Dopo l’accaduto, la città fu divisa in settori e cominciarono le restrizioni per i palestinesi in zona H2: il coprifuoco per rincasare oggi è fissato alle 22 e nessun residente dell’area H1, neppure amici o parenti, può entrare nell’area. Anche le ambulanze devono chiedere il permesso ai coloni per l’ingresso. Ma le restrizioni non si limitano alla zona a controllo israeliano.
«Non possiamo camminare o vivere dove vogliamo e, dal 1997 a oggi, siamo stati costretti a chiudere 1.800 negozi in tutta Hebron: nell’area della “città vecchia” l’economia è morta». A parlare è Muhanned Qafesha, ex commentatore sportivo e guida turistica dal 7 ottobre 2023. La guerra – confessa – non ha cambiato solo la sua vita: «Gli attacchi sono più frequenti, i checkpoint sono chiusi sempre più spesso e l’esercito è più violento». Secondo Qafesha, i soldati israeliani nell’area H2 sono 1600, il doppio dei coloni – secondo altri giornalisti palestinesi ascoltati da Avvenire il rapporto è ancora più alto –, e non tutelano i palestinesi. «Nel 2022 stavo documentando una violenza da parte di un colono, che mi ha rubato il cellulare e mi ha attaccato. I soldati, invece di difendermi, mi hanno recluso in detenzione amministrativa senza accusa». Anche il sindaco della città, Tayseer Abu Sneineh, è stato arrestato lo scorso settembre dall’esercito israeliano. Ma è a sud, nel governatorato di Hebron, che le violenze sono più frequenti. Solo un mese fa, nel villaggio di Al-Rihiya un bambino palestinese di 11 anni, Mohammad Bahjat Al-Hallaq, è stato ucciso da un soldato israeliano. Secondo l’agenzia palestinese Wafa, i militari hanno aperto il fuoco su un gruppo di bambini che giocavano a calcio nel cortile della scuola. Per Qafesha, non si tratta di un caso isolato: «Quasi ogni settimana i soldati scendono a fare spedizioni nel villaggio, che non è minaccioso. Il risultato sono violenze, feriti e morti. È difficile vivere qua, ma ancora resisto».
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