Dobbiamo diventare tutti attori per tenere in vita l'umano
Nell'era dell'intelligenza artificiale e del postumano c'è un antidoto al dominio della tecnologia: è l'esperienza di corpi vivi in un tempo condiviso. Il teatro come Pane quotidiano

Si stava concludendo una lezione di diritto. Un corso di common law ha una logica ordinata: si parte dai casi, si distillano regole e giustificazioni, si misurano le eccezioni, si ricompongono le antinomie in una tassonomia. Proprio mentre si ricapitolava, si è avvertita un’irrilevanza personale. Gli studenti, muti e forse attenti, avrebbero ottenuto di più da un sistema evoluto di intelligenza artificiale (IA): chiarezza, precisione, mappe. Nel momento più alto di analiticità, la voce evaporava. Non succede, però, quando si alleggerisce con una battuta caustica, quando si porta un problema sul bordo del dramma, quando si prolunga il silenzio per sbigottire. Non succede, insomma, quando si diventa attori. In quei frangenti la rilevanza non dipende da ciò che si dice, ma dal fatto che lo si dice con un corpo, esponendosi a un’emozione e ricevendone. La classe e il docente diventano la messa in scena: fallibili, esposti. Lì si è intuita una cosa semplice: gran parte dell’umano è riducibile a struttura; ciò che resiste è la teatralizzazione.
Questa intuizione ha una storia. Con un collega, docente di informatica teorica, si rifletteva da tempo su dove collocare l’“umano” mentre l’IA cresceva. Si è cercato rifugio per un tratto nella Sapienza presocratica e biblica: Eraclito, Qoèlet, la voce che pensa inseparabile dal corpo e dal dolore, i conflitti sciolti più per intuizione emotiva che per dialettica. Ma anche questo rifugio è simbolico: se passa per un linguaggio, può essere appreso. Un modello sufficientemente addestrato impara posture e figure persino della Sapienza. Nemmeno lì, dunque, si trova l’irriducibile. Si è spostato il fuoco sul dialogo psicoanalitico. Si è pensato: la voce del processo primario non è mimabile; l’inconscio è, per principio, imprevedibile. E tuttavia, se lo si formalizza (si pensi al lavoro di Ignacio Matte Blanco sulla logica simmetrica), l’imitazione diventa possibile. Se l’inconscio è descrivibile, la macchina può approssimarlo; se non lo è, resta opaco all’umano prima ancora che a lei. In entrambi i casi l’IA non si arresta davanti a un tabù, ma ai limiti esplicativi umani. Si è pensato poi alla poesia. Montale, Ossi di seppia: oggetti poveri che fanno risuonare emozioni mai nominate. Qui l’innesco è il correlativo oggettivo eliotiano: un’emozione non si dichiara: si costruisce una costellazione di oggetti e gesti che la costringono ad accadere. È una tecnica, altissima ma pur sempre tecnica; ciò che è tecnica, a sufficiente scala, tende a essere riproducibile. Oggi goffamente, domani meglio. La tentazione è amara: beati i morti che non hanno conosciuto l’IA e hanno potuto illudersi che arte e ragione bastassero a difendere l’umano.
Resta il luogo in cui l’irrilevanza si rovescia in presenza: il teatro. Non il testo o il “prodotto”, ma l’esperienza di corpi vivi in un tempo condiviso. Da Peter Brook in poi, la definizione minima è ben nota: basta uno spazio vuoto, qualcuno che agisce, qualcuno che guarda. Jerzy Grotowski ha portato questa evidenza all’osso: spogliare tutto, restituire l’evento al rapporto nudo attore-spettatore. La teoria della performance ha allargato lo sguardo: rito, gioco, spettacolo, vita quotidiana condividono strutture di messa in atto; l’evento scenico è un processo autopoietico in cui attori e spettatori si trasformano reciprocamente. In tutte queste linee il punto è lo stesso: il teatro non è un oggetto, è un accadere tra corpi. Qui la lezione di Artaud nella lettura di Derrida. Teatro della crudeltà non significa compiacimento del dolore, ma rigore contro le finzioni anestetiche: intensità, spoliazione, contatto. «La teatralità deve restaurare e attraversare da parte a parte “esistenza” e “carne”. Varrà dunque per il teatro quello che diciamo del corpo», si legge in una sua pagina. Altrove precisa, in sintesi: non è l’arte a imitare la vita; è la vita che imita un principio (si dica pure un “trascendente laico”) al quale l’arte ci ricollega; e il teatro, più di ogni altra arte, è il luogo in cui l’imitazione si lascia spezzare per far posto a una rappresentazione totale che include la propria negazione. In breve: il teatro non copia, espone; non rassicura, espone al limite.
Da giurista si ragiona spesso per coppie concettuali. Qui la coppia è prodotto/procedimento. Molte pratiche artistiche, una volta fissate, sono prodotti: oggetti duplicabili, trasferibili, archiviabili. Il teatro, come la lezione riuscita, è la singolarità di quel procedimento e del suo limite: accade una volta sola e in quel “una volta” si decide la sua verità. Lo si può registrare, certo, ma la registrazione è una traccia, non l’evento. Il teatro si dà nel tremore della voce e nel respiro della sala, nella stanchezza di un attore, nel rumore fuori tempo di uno spettatore: contingenze che sono forma. A questo punto entra in gioco l’IA. È potente ovunque l’azione umana sia formalizzabile: calcolo, scritture a stile controllato, immagini indotte da schemi. L’umano è sostituibile quando conta il risultato. Il teatro non è un risultato: è un rischio in presenza. Non si “ottiene”, accade. Si dirà: avatar indistinguibili, ologrammi, ambienti immersivi in cui un sistema reagisce alle microespressioni del pubblico renderanno presto superfluo il corpo vivo. La risposta non è estetica ma ontologica. Si può simulare la presenza fino a farla sembrare reale; non si può replicare la condizione dell’esserci: vulnerabilità condivisa, fallibilità senza possibilità di editing, esposizione reciproca alla stessa mortalità. Un attore artificiale non rischia allo stesso modo, non fallisce allo stesso modo, non invecchia, non ha voce stanca quella sera. Il pubblico lo sa. Il patto teatrale (esporsi e guardare sotto un identico rischio) non è simulabile senza perdita.
Freud ha mostrato come sogni e opere trasformino fantasie rimosse in forme condivisibili; Lacan ha letto nella tragedia il bordo del desiderio, là dove la parola si inceppa. Ma la chiave, in scena, non è il “contenuto” dell’inconscio: è l’atto che lo muove in presenza. Anche in aula accade il controtransfert: non è un alone mistico, ma informazione che attraversa i corpi e ne modifica i gesti. Irritazione e noia, sorriso e rossore, un silenzio troppo lungo: non sono incidenti, sono dati che costringono a ricalibrare. Questo tipo di informazione non si esporta: non perché sia ineffabile, ma perché è relazionale, temporale, mortale. Da qui la proposta. Non basta difendere arte o ragione come roccaforti identitarie; occorre universalizzare il teatro come forma di esperienza. Diventare tutti attori non significa spettacolarizzare la vita; significa assumere consapevolmente la grammatica della scena nelle pratiche che contano: insegnare, giudicare, curare, governare, negoziare, amare. Significa progettare tempi, silenzi, archi di intensità, modulazioni della voce; gettarsi nel vuoto dell’improvvisazione; trattare chi è presente (si direbbe: il pubblico) non come utenza ma come cofattore dell’evento. Nella scuola e nell’università questo è decisivo. Se la lezione si riduce a contenuto, gli studenti fanno bene a interrogare l’IA o a consultare materiali multimediali (sempre in eccesso di offerta) predisposti da qualcuno più illustre del loro docente. Le cose cambiano quando l’insegnamento è esperienza condivisa, non consegna di unità (in)formative. È qui che la crudeltà artaudiana torna necessaria: esposizione, niente alibi.
Non è romanticismo dell’“autenticità”. È un criterio operativo per distribuire i compiti tra persone e macchine. All’IA si affida senza rimpianti la tassonomia, il riassunto, la comparazione di dottrine, la generazione di esempi, persino la simulazione di stili. All’essere umano spetta l’atto: trasformare la regola in gesto, il concetto in respiro. Se la ratio dell’insegnamento è la trasmissione efficiente d’informazioni, l’IA lo farà meglio. Se la ratio è la formazione di persone, la prova avviene soltanto nel rischio dell’esserci. La Sapienza evocata all’inizio non scompare, cambia statuto. Non è un baluardo antimoderno, è competenza scenica: saper stare con altri corpi, sentire e trasmettere emozioni come parte della conoscenza. Non è nostalgia, è pratica. Il controtransfert teatrale è un grafo di informazioni vive; proprio perché vive, si lasciano tradire dall’archivio. Nell’epoca postumana sarà il teatro, parte del Pane quotidiano, a tenere viva la pratica dell’umano: non perché sia puro o ostile alla tecnica, ma perché, anche quando la integra, non può rinunciare alla contiguità dei corpi mortali. La vita imita un principio al quale l’arte rinvia – un’imitazione che, nel cristianesimo, è già realtà – come a un medesimo oggetto di trascendenza; il teatro è il luogo privilegiato in cui questa imitazione si lascia spezzare e, nel suo spezzarsi, diventa verità di carne, che è poi il senso stesso della Rivelazione.
Si ritorna all’aula. Non è più considerata una sconfitta la sostituibilità nella fase analitica; la si accoglie come un sollievo funzionale. Ciò che non richiede presenza personale può passare alla macchina; ciò che esiste solo nella messa in scena resta compito umano. Non sempre accade qualcosa: il rischio è l’evento stesso. Ma quando una pausa tiene, una variazione affiora, uno sguardo disloca il ritmo, il sapere come puro “aver sapore” prima di ogni elaborazione concettuale, compie il suo passaggio semantico e diventa conoscenza. È poco, forse. È sufficiente, però, a impedire che qualcuno sia davvero sostituibile.
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