Dopo la "Brexit" è davvero tempo di "Westexit"?

Le divergenze tra Stati Uniti ed Europa hanno messo in moto una transizione atlantica che si può leggere come "uscita dall'Occidente" . In due direzioni
December 19, 2025
Dopo la "Brexit" è davvero tempo di "Westexit"?
/Foto Unsplash
Quando la Gran Bretagna abbandonò l’Unione Europea nel 2016, fu inventato il temine “Brexit”, poco elegante ma efficace. Siamo ora giunti (chiedo perdono per l’orribile neologismo) alla “Westexit”, cioè ad una “uscita dall’Occidente”? Un processo che si può intendere in due modi. Anzitutto, in quello di una secessione interna all’Occidente. Le divergenze anche strategiche tra Unione Europea e Stati Uniti sono evidentissime, al punto che Washington punta ad una disgregazione dell’Unione, considerata il vero nemico dell’Europa degli Stati, non tanto in quanto sovrani, ma in quanto sovranisti.
C’è la visione di un’Europa marginale, avversaria, opportunista e persino anti-democratica nella nuova Strategia di Sicurezza Nazionale varata da Trump. Un’Europa che, tra l’altro, avrebbe lucrato per decenni sull’ombrello difensivo americano, come se non fosse altrettanto vero che gli Stati Uniti, dopo il 1947, hanno utilizzato l’Europa occidentale come una piattaforma strategica anti-sovietica, perseguendo i loro obiettivi di sicurezza globale, prima ancora che la sicurezza europea. Gli Stati Uniti vogliono ora che i Paesi europei diventino un gruppo di singole “nazioni straniere” allineate alle politiche di Washington. Con un classico transfert, Trump addossa all’Europa tendenze repressive e illiberali. Per farla breve, l’Occidente è oggi spaccato in modo nettissimo e a tutto tondo tra la concezione del mondo europea e il nuovo corso trumpiano, che tuttavia non fa che esacerbare tendenze in atto da tempo.
In realtà, ben prima di Trump, Europa e Stati Uniti non concordano, nei fatti, su alcuni valori fondamentali. Prendiamo il caso della pena di morte, abolita dappertutto nel Vecchio Continente, vigente più che mai negli Stati Uniti. Qui si tratta del diritto alla vita. Oppure il caso dello stato sociale che, benché in crisi, ha costituito un pilastro del modello politico europeo, e che oltreoceano è considerato una forma di socialismo reale. Qui si tratta, invece, di un aspetto centrale dell’uguaglianza e della coesione sociale. Infine, la questione del possesso di armi, ritenuto quasi un diritto inalienabile negli Stati Uniti, ma, per fortuna, ancora soggetto a forte regolazione in Europa, in nome di una sicurezza gestita dallo Stato e non privatizzata. Le posizioni politiche rispetto a questa oggettiva divergenza, in Italia e in Europa, sono di due tipi. La prima è improntata, giustamente, all’orgoglio europeista. Richiede un grande balzo in avanti nell’integrazione (specie nella politica estera e nella difesa) come risposta all’altezza della sfida. Purtroppo, a giudicare, ad esempio, dall’impronta decisamente nazionale che sta prendendo la difesa europea, non sembra emergere affatto una volontà politica in tale direzione, che però è la strada giusta. La seconda tende ad enfatizzare la necessità di non rompere con Washington, con il titanismo del “ponte sull’Atlantico”, in nome dell’unità dell’Occidente. Si basa sulla credenza, oggi tutt’altro che verificata, in un Occidente come un composto organico, formato congiuntamente dalle due sponde dell’Atlantico.
Ma c’è una seconda interpretazione di questa tendenziale “uscita dall’Occidente”. Riguarda quella vasta e multiforme parte del mondo, immensamente maggioritaria, che va sotto la definizione, alquanto sciatta e approssimativa, di Sud globale. Oggi il mondo non è più solo chiaramente post-europeo, ma in buona misura anche post-occidentale. Se a metà del secolo scorso assunse rilevanza politica il movimento dei non-allineati, oggi siamo alle prese con un nuovo fenomeno, quello dei Paesi non allineabili. Vale a dire Paesi che non intendono mutare le loro posizioni (ad esempio sull’Ucraina, o sul conflitto israelo-palestinese) come risultato di pressioni di altre potenze. Non è questione di offerte, di incentivi, è questione di opportunismo e vantaggi comparati. È la “loro” autonomia strategica.
Su questo principio di realtà, e non su quello fumosamente valoriale (su “valori” militanti che raramente coincidono con l’etica dell’intesa), ritroviamo un’oggettiva comunanza di destini tra America ed Europa. Che non è affatto una vocazione egemonica, ma la condizione di trovarsi in un mondo ormai definitivamente post-coloniale, che ragiona con la propria testa, fa i propri calcoli, e persegue i propri interessi, sempre meno coincidenti con quelli occidentali. Qui si giocherà il vero ruolo mondiale di Stati Uniti (al di là di Trump) e Unione Europea (al di là dei nazionalismi): se sapranno gestire questa transizione valorizzando e prestando ascolto al pluralismo globale, con politiche inclusive e non prescrittive. Un’etica del discorso a livello mondiale. In questa sfida epocale, l’Europa tanto ridicolizzata dei diritti e del dialogo mi pare assai meglio attrezzata e persino più forte dell’America dei diktat e degli ultimatum muscolari.

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