giovedì 11 giugno 2020
I loro ambiti di impegno vanno dalla cultura all’ambiente, con un unico comune denominatore: restituire il bene ricevuto alle comunità che si sono presi cura di loro

Cronache di una piccola rivoluzione, quella del volontariato degli stranieri in Italia. Quella compiuta negli ultimi 25 anni dagli immigrati, che perlopiù sono regolari (circa 5,8 milioni) e continuano a integrarsi, ad acquisire la cittadinanza a ritmo sostenuto (nonostante i limiti della legge del 1992) e svolgono attività solidali per restituire quanto ricevuto nei confronti della comunità che li ha accolti. A impegnarsi in queste attività per il bene comune, sono soprattutto donne giovani e con un alto livello di istruzione.

Uno studio che verrà pubblicato il 22 giugno dimostra per la prima volta che sta aumentando il numero delle persone straniere regolarmente residenti nel Belpaese e impegnate a titolo gratuito nelle associazioni. La prima ricerca nazionale sull’argomento, che stravolge tutti gli stereotipi imperanti nei media e nei social che contribuiscono a metterci stabilmente all’ultimo posto (secondo Ipsos–Ocse) nella classifica dei più disinformati in materia nel mondo occidentale, si intitola “Volontari inattesi. L’impegno sociale delle persone di origine immigrata” (Erickson), promossa da Csvnet e realizzata dal Centro studi Medì di Genova. Gli autori sono il sociologo Maurizio Ambrosini, docente della facoltà di Scienze politiche alla Statale di Milano, da anni esperto di migrazioni e membro del Cnel, e Deborah Erminio (Università di Genova, Centro Medì). Ha collaborato la rete dei Centri di servizio per il volontariato raccogliendo dati attraverso centinaia di questionari e interviste.

L’immagine assistenziale dei migranti, visti solo come destinatari di accoglienza e aiuto, viene ribaltata. Un gran numero si impegna nelle forme più disparate di solidarietà a favore degli italiani. Ambrosini, Erminio e il Centro Medi hanno utilizzato 658 questionari e più di 100 interviste, effettuate in 163 città italiane a immigrati volontari residenti stabilmente e provenienti da 80 Paesi. Le loro esperienze sono avvenute in cinque grandi reti nazionali del non profit (Avis, Aido, Fai, Misericordie, Touring Club) che li hanno coinvolti nelle loro attività. La prima nota di rilievo è che il 52 % dei volontari immigrati è donna; il 42% ha un’età media tra 20 e 35 anni. Vivono in Italia da circa 15 anni e il 4% è nato nel nostro Paese. Il 42 % è cittadino italiano, 6 su 10 lavorano, il 41 % è laureato mentre i diplomati si attestano al 36. Più della metà dei volontari di origine straniera s’impegna con una media di circa 6 anni di attivismo. I più saltuari rappresentano un quarto circa del campione, con un’esperienza di volontariato di circa 3–4 anni. Si tratta soprattutto di casalinghe oppure persone che lavorano in modo occasionale o che hanno un impiego part–time.

L’associazione nella quale svolgere attività si trova perlopiù con il passaparola, mentre nei campi di impegno al primo posto si collocano le attività culturali anche a sfondo sociale come la promozione del patrimonio, l’organizzazione di mostre e visite guidate ma anche progetti educativi con bambini e ragazzi in doposcuola o sostegno scolastico. Seguono le iniziative ricreative e di socializzazione – feste, eventi, sagre – insieme ai servizi di assistenza sociale negli sportelli di accoglienza e ascolto, mensa sociale, distribuzione di vestiario o di pacchi alimentari. Sono molto coinvolti inoltre negli empori solidali delle Caritas diocesane, dove persone e famiglie in difficoltà economica possono fare la spesa gratuitamente. Secondo il primo rapporto Caritas Italiana e Csvnet del dicembre 2018, i volontari stranieri sono presenti in un terzo dei quasi 200 empori con una media di quattro unità per servizio. Lo si è visto, del resto, in questi mesi di emergenza alimentare per i più poveri dovuti alla pandemia. L’impegno individuale – senza far parte di un gruppo o associazione – riguarda un quarto dei volontari immigrati, stessa percentuale di chi sceglie di fare volontariato più strutturato.


Il 52 % dei volontari immigrati è donna, mentre il 42% ha un’età media tra 20 e 35 anni.
Vivono in Italia da circa 15 anni e il 4% è nato nel nostro Paese. Il 42 % è cittadino italiano, 6 su 10 lavorano, il 41 % è laureato mentre i diplomati si attestano al 36%

La metà non aveva mai fatto attività spontanee e gratuite per la comunità nel proprio paese di origine e in Italia ha fatto la sua prima esperienza. Le motivazioni? La causa per cui opera l’associazione, seguita dalla possibilità di svolgere attività con gli amici, oltre alla possibilità di incontrare altre persone. Ora è tempo di accorgersi che la società è cambiata e va cambiata la narrazione per adeguarsi alla nuova realtà cresciuta in silenzio. E chissà che con un racconto nuovo degli stranieri che sono autentiche risorse, non si inizi a contrastare l’odio, il razzismo e la xenofobia.

Marie Claire, Ruanda. «In ogni storia c’è un prima e un dopo»

Una delle “volontarie inattese” è Marie Claire. Originaria del Ruanda, è arrivata in Italia nel 1994 quando aveva 20 anni, in fuga dal genocidio dei Tutsi. Oggi è infermiera nel reparto oncologico dell’ospedale San Camillo a Roma, dove vive con suo marito, un medico italiano e i loro tre figli. In Italia si è laureata in scienze infermieristiche: Nel suo percorso di integrazione, non ha mai dimenticato il punto da cui è partita e ha scelto di creare Umubyeyi mwiza (UM Onlus), di cui è presidente. Umubyeyi mwiza è un’espressione della lingua kinyarwanda traducibile con il concetto di “una mamma buona”. È un’organizzazione umanitaria fondata da migranti che non hanno perso il contatto con il paese d’origine. Il suo impegno nel volontariato è nato proprio dall’ascolto, durante alcune visite in Ruanda, delle storie di donne che all’inizio sembravano addormentate. «Poi pian piano hanno incominciato a raccontare e ho capito cosa avevano vissuto. Mi ha toccato veramente il cuore rendermi conto che ci sono mamme come me che non riescono a lavorare e a mantenere la propria famiglia a causa della violenza subita e dei traumi conseguenti».
Marie Claire ha deciso di aiutarle a rendersi autonome attraverso il lavoro. Tutto è iniziato sei anni fa con il progetto “Crescere dopo il trauma del genocidio” per la formazione di operatori socio–sanitari locali da parte di professionisti italiani. Poi è stata creata una cooperativa dove le persone, prevalentemente donne, realizzano oggetti di artigianato ruandese venduti in Italia per raccogliere fondi da investire nella cooperativa stessa e distribuire tra le artigiane. Con il progetto “Le Donne di Gisagara”, infine, è stato avviato un allevamento di galline ovaiole, grazie alla manodopera locale che ha costruito dei pollai nei cortili delle case in cui abitano le donne. Marie Claire sottolinea l’importanza di far emergere l’impegno spontaneo e solidaristico dei tanti immigrati presenti in Italia. «È importante far sapere che non si viene qui per rubare il lavoro o chiedere l’elemosina. Non ci sono soltanto le barche, c’è anche una storia dietro. E c’è anche un dopo».

Mohammad, l’iraniano che racconta ai turisti i capolavori degli Uffizi

Mohammad viene dall’Iran, ha 58 anni e da 33 vive a Firenze insieme alla moglie. Hanno una figlia di 28 anni. Lavora in un albergo da tanti anni, ma la sua vera passione è sempre stata l’arte. Inoltre Mohammad si è sempre impegnato per gli altri, in Iran aiutava gli analfabeti a imparare a leggere e scrivere. A Firenze nel 2012 è riuscito a coronare un sogno entrando a far parte dell’associazione “Biblioteca di pace”, che lo coinvolge in due insoliti progetti di inclusione realizzati alle Gallerie degli Uffizi. “Sguardi dal mondo” e “Fabbriche di storie”, che vogliono creare percorsi di integrazione attraverso l’incontro fra culture. Dodici cittadini immigrati, fra cui Mohammad, hanno raccontato altrettanti capolavori dell’arte custoditi negli Uffizi intrecciando il loro vissuto con la storia delle opere.
«Ognuno di noi ha cercato di raccontare ciò che vede nel quadro, a partire dall’esperienza personale – spiega Mohammad – per esempio ho scelto un dipinto capace, a mio avviso, di coniugare cultura occidentale e orientale».
Il lavoro ha prodotto un archivio di podcast online utilizzabile come “guida” durante la visita al museo. Ma non solo: «Per i progetti agli Uffizi siamo stati seguiti da curatori competenti – aggiunge– evorremmo mettere a frutto questa esperienza diventando guide del museo, a disposizione dei nostri connazionali, di turisti e scuole».
Inoltre l’aspetto interculturale di Biblioteca di pace è molto stimolante. «Dentro l’associazione ci sono volontari che provengono da paesi diversi come Egitto, Perù e Libia – prosegue – e conoscere altre esperienze è molto importante».
Come si possono coinvolgere altri immigrati?
«Raccontando le esperienze che si fanno, quello che si impara. È il modo migliore per invogliare tutti a impegnarsi nel volontariato».
La Biblioteca di pace è impegnata anche in altri settori: «Tra le nostre attività sosteniamo chi si occupa di assistenza domiciliare per anziani incoraggiandoli a prendersi cura dei beneficiari non solo con le faccende domestiche e forniamo aiuto psicologico alle famiglie».

Dal Perù all'Italia al fianco degli anziani: la vocazione di Marlene

A fianco degli anziani in una Rsa milanese anche durante la pandemia. Marlene Vargas Moscoso, 65 anni, e Kleber Fernando Mejia, 63. vengono rispettivamente da Perù ed Ecuador e sono in Italia da più di 10 anni. Hanno deciso di diventare volontari dopo aver seguito un corso d’italiano gratuito organizzato a Milano nell’ambito di Genti di Pace, progetto della Comunità di Sant’Egidio per l’integrazione culturale delle persone straniere.

Kleber è diventato volontario 12 anni dopo l’arrivo in Italia e una vita lavorativa intensa come magazziniere in un’azienda di giocattoli. Da circa 3 anni è impegnato nell’istituto “Virginio Ferrari” nel quartiere periferico milanese Corvetto – tra le Rsa più colpite dal Coronavirus. Laureato in agraria – come Marlene – anche in Ecuador stava vicino ai bisognosi.
I volontari nella Rsa offrono compagnia agli ospiti e piccoli aiuti. «Ma la cosa più importante è che abbiamo creato delle amicizie», dice Kleber.
A causa dell’epidemia, Marlene ha perso a fine marzo due amiche, due anziane sorelle ricoverate nella Rsa. I volontari hanno dovuto interrompere le loro attività, ma hanno trovato un modo per restare vicino agli ospiti dell’istituto con lettere e telefonate.
Per Kleber prendersi cura di loro significa soprattutto tenere vivo il legame con la famiglia e la propria terra: «nel loro volto vedo quello di mio padre e di mia madre che ho perso 5 anni fa. E ogni volta che aiuto un anziano qui, penso che qualcuno nel mio paese si sta prendendo cura di uno dei miei vecch».
Anche per Marlene il volontariato è legato alla parola “famiglia”, ma anche a “emancipazione”. Quando è arrivata a Milano, dieci anni fa con i due figli, era in difficoltà perché il marito che già viveva in Italia, all’epoca non lavorava. Senza conoscere la lingua e in cerca di una occupazione si è avvicinata alla parrocchia e ha scoperto il corso di italiano A spingerla verso il volontariato con gli anziani, di cui si occupa da circa 9 anni, è stato anche il suo lavoro: «Nel mio Paese facevo tutt’altro mentre qui, dopo un percorso di formazione, ho iniziato a lavorare come assistente domiciliare».

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