giovedì 22 ottobre 2009
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Non si sa esattamente quando, ma si sa che prima o poi avverrà: per questo, non è esatto dire che una frana è come un terremoto, giacché lo scivolamento di una marna o di un’argilla per effetto delle piogge è decisamente più prevedibile di una scossa tellurica. I piani di assetto idrogeologico, infatti, misurano già oggi, con il loro indici, sia il rischio che la pericolosità dei territori soggetti a frane o alluvioni, in tutta Italia. Non sono infallibili, anche perché spesso vengono redatti da personale precario e perché tra la redazione del piano e il suo utilizzo passano anni senza che nessuno lo aggiorni; ma restano strumenti affidabili, cui si dovrebbe attenere chi autorizza la realizzazione di un palazzo o di un’opera pubblica. Diversamente da quel che si usa dire quando si manifesta una frana assassina, infatti, l’abusivismo edilizio è un’aggravante ma non è la causa dei disastri che avvengono spesso anche in aree urbanizzate legalmente, ma senza tenere conto dei dati diffusi dai Pai. Dati che sono accessibili non solo dagli amministratori, ma anche dai cittadini, dal momento che queste informazioni sono diffuse anche via internet. Il ministero dell’ambiente ha fatto sapere da tempo - e la notizia è confermata dall’Associazione nazionale dei consorzi di bonifica - che in Italia 6633 comuni (81,9%) sono ad alto rischio idrogeologico, cioè sono soggetti a frane e alluvioni. In pratica, 29.517 chilometri quadrati di Italia sono ballerini: il problema, in termini di superficie, interessa il 9,8% del nostro paese. Solo nel 2007, era il 7,1%, a riprova del fatto che, di anno in anno, i dati 'evolvono'. Qualche tempo fa il ministero parlava di un fabbisogno di 39 miliardi di euro per 'riparare' lo Stivale e le sue isole. Oggi, come ha dichiarato qualche mese fa ad Avvenire Mauro Luciani, direttore generale della difesa del suolo del Ministero dell’ambiente, «per mettere in sicurezza tutto il territorio servirebbero 40 miliardi». E altri quattro dovrebbero essere investiti contro l’erosione delle coste. Un sogno proibito per qualsiasi governo, tant’è vero che Protezione civile e Legambiente provano a ridimensionare questo fabbisogno a 25 miliardi, nella speranza che, avvicinandolo, il traguardo possa essere raggiunto. Un’altra ipotesi sarebbe quella di coinvolgere i privati, come si è fatto per il Ponte sullo Stretto; ma anche così si dovrebbero impegnare, per la parte spettante allo Stato, diverse manovre finanziarie. La via più diretta per aggredire il problema passa allora attraverso la responsabilizzazione delle autonomie e del cittadino: in altre parole, una colossale campagna di prevenzione fatta di prescrizioni, controlli e sanzioni che impongano ai proprietari la manutenzione del territorio e vincoli rigidi ai Comuni circa il rispetto dei Pai nella redazione degli strumenti urbanistici e nella concessione delle autorizzazioni edilizie. L’alternativa a questo giro di vite resta quella di rincorrere le frane e piangere i morti, sapendo fin da principio che si tratta di una battaglia impari: i consorzi di bonifica, che presidiano il territorio e che nei prossimi mesi - altra contraddizione della politica nazionale - potrebbero 40 a essere aboliti, hanno stimato che dal 1999 al 2005 i finanziamenti pubblici per le opere di difesa del suolo, quelle cioè dirette a riparare vecchi dissesti o a evitarne di nuovi, hanno coperto circa il 5% del necessario. Tutto questo, mentre calava la Sau (del 19,4% in 13 anni, secondo Istat e Inea) che misura i terreni coltivati e quindi anche il territorio che ogni giorno viene curato dagli agricoltori italiani. L’Anbi prevede che, se si continuerà di questo passo, l’agricoltura perderà entro il 2016 un altro 17,5%. In altre parole, un’area pari a Sicilia e Sardegna sarà lasciata all’incuria e al degrado, geologicamente parlando. Naturalmente, gli indici non dicono tutto. Il Trentino Alto Adige è la prima regione per aree a rischio (25,9% del territorio) ma l’ultima tragedia è avvenuta in Sicilia, dove - in base ai dati resi disponibili dalla Regione - solo il 3,2% del territorio era stato classificato 'ad alta criticità idrogeologica'. La Basilicata e la Valle d’Aosta hanno la stessa percentuale di comuni colpiti dal problema delle frane e delle alluvioni, ovverossia il cento per cento, ma la situazione cambia se consideriamo l’area interessata, il 5,4% nel primo caso e il 17,1 nel secondo. Se, infine, analizziamo la situazione sotto il profilo finanziario, balzano all’occhio contraddizioni anche più pesanti. Nel 2003 si stimò che per mettere in sicurezza il Piemonte servissero 4.800 milioni di euro: nei cinque anni precedenti ne erano stati spesi nell’intero bacino del Po - e quindi solo una parte era finita in Piemonte - appena 345; anche aggiungendo gli 82,8 destinati nel periodo 1999-2005 a interventi finanziati in base al decreto Sarno il target resta lontano. Esattamente come in Molise: investiti 110 milioni nell’arco di sette anni, contro un fabbisogno di 3300 stimato dal governo.
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