martedì 9 maggio 2023
E la Chiesa lanciò la lotta alla mafia. Seguirono anche le parole di Benedetto XVI e Francesco. Ma anche i martiri
Giovanni Paolo II in Sicilia, nella Valle dei Templi, il 9 maggio 1993

Giovanni Paolo II in Sicilia, nella Valle dei Templi, il 9 maggio 1993 - Archivio

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Sono molte le iniziative con le quali la Chiesa agrigentina ricorda i 30 anni dalla visita di Giovanni Paolo II. Ieri l’incontro sul tema “A trent’anni dalla visita di Papa Giovanni Paolo II. Come è mutata la mafia? Quale sentiero ha percorso la Chiesa?”. Interventi di Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Antonino Raspanti, vescovo di Acireale e presidente della Cesi, e Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento. Oggi nella Valle dei Templi dalle ore 8.30 ci saranno gli “Studenti in cammino per la legalità”. Alle 16.30 in piazza Vittorio Emanuele inizio del “Pellegrinaggio penitenziale” fino alla Cattedrale dove sarà celebrata la Messa, presieduta dall’arcivescovo. In occasione del trentennale il cardinale Stanislao Dziwisz, segretario storico di Papa Wojtyla, ha donato all’Arcidiocesi una reliquia ex sanguine di Giovanni Paolo II. La teca sarà incastonata in una icona, realizzata da un artista ucraino, Roman Vasylyk, che ha conosciuto personalmente San Giovanni Paolo II.

Trent’anni fa il punto di non ritorno della Chiesa nei confronti delle mafie. La visita di Giovanni Paolo II ad Agrigento e la sua famosa “invettiva”, il «grido del cuore» come lo definì lui stesso. Un “fuori programma” alla fine della celebrazione nella splendida Valle dei Templi.

Il Papa si ferma, impugnando con forza il pastorale, e si rivolge direttamente ai siciliani parlando a braccio. «Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!». Wojtyla alza ancora più la voce. «Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Già nell’omelia aveva invitato a «una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica». Ma capiva che non bastava.

Proprio ad Agrigento l’aveva toccata con mano. Fu durante l’incontro che aveva avuto poche ore prima nel palazzo vescovile coi genitori del giudice Rosario Livatino, ucciso dai mafiosi nel 1990, e beatificato nel 2021, proprio il 9 maggio. «Una cosa è leggerlo sui giornali o vederlo alla televisione, ma altro è vedere direttamente quel volto di madre dolorosa», disse al termine dell’incontro. Aggiungendo che Livatino era «uno dei martiri della giustizia e indirettamente della fede».

Papà Vincenzo e mamma Rosalia toccarono il suo cuore. La madre non disse una parola, mentre il Papa le teneva le mani, guardandola con tenerezza e sofferenza. Il papà continuava a dire: «Santità, avevamo solo lui, ce lo hanno ammazzato».

Dolore, ma anche speranza: «Hanno reciso un fiore, ma non potranno impedire che venga la primavera». Il “grande Papa” rimane colpito dal “piccolo giudice”, e dalle parole che aveva scritto: «Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».

Testimone l’arcivescovo emerito di Agrigento, monsignor Carmelo Ferraro. «Lì nacque “il grido del cuore” che tutto il mondo ricorda, la parola di un profeta che invita gli uomini a camminare sulla via della concordia e della vita. Un grido profetico, un capolavoro di evangelizzazione». L’arcivescovo ricorda anche che «quando arrivammo all’aeroporto, il comandante dell’aereo ci disse che tutte le televisioni del mondo avevano trasmesso le parole del Papa». I genitori di Livatino erano nelle prime file ad ascoltarle. «Ci danno la forza per vivere, per continuare a lottare». Anche i mafiosi avevano ascoltato. E non gradirono.

Due giorni dopo la morte del Papa, in un’intercettazione, i mafiosi Rosario Parisi e Antonino Cinà commentarono: «Ho sentito poverino, perché era, a parte quella sbrasata un pochettino pesante verso i siciliani in generale, però è stato un cristiano buono, diciamo che è stato un artefice per abbattere il comunismo».

“Sbrasata” in siciliano equivale a “sparata”. Ma Cosa nostra era già passata dalle parole ai fatti. Arrivarono così, nella notte del 28 luglio 1993, le bombe a Roma a San Giovanni in Laterano, la chiesa del Vescovo di Roma, e a San Giorgio al Velabro (ad organizzare gli attentati fu Matteo Messina Denaro, inviato a Roma da Totò Riina).

La conferma del legame con le parole del Papa arriva da alcuni importanti collaboratori di giustizia. Il 19 agosto Marino Mannoia, protetto dall’Fbi in Usa, dice: «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia.

Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: “Non interferite”». E Leonardo Messina spiega: «La Chiesa ha capito prima dello Stato che doveva prendere le distanze da Cosa nostra». Anni dopo Totò Riina, intercettato in carcere, si scaglia con durezza. «Pentitevi!... ma che mi pento… Ma pentiti tu! Perché vai facendo questi comizi? Perché sei venuto ad Agrigento?». E ancora: «Non sei un Papa, tu sei un disgraziato, tu sei un prepotente, uno scellerato». E «quello polacco era cattivo, era cattivo proprio, era un carabiniere».

Il Papa, quando i vescovi siciliani andarono in visita di ringraziamento, li esortò: «Occorre reagire, non bisogna assolutamente rassegnarsi. Dinanzi a questa aberrazione bisogna aiutare i fedeli a formarsi e a maturare una retta coscienza etica». Il 13 aprile 1994 la Conferenza episcopale siciliana in un importante documento definì la mafia un «distorto complesso di falsi valori», parlando di «assoluta incompatibilità con il Vangelo» e rinnovando «la censura della scomunica».

Ma la mafia aveva alzato il tiro e il 15 settembre 1993 aveva ucciso il parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi. Reazioni che tragicamente confermano, sottolinea don Luigi Ciotti, «come le sue parole diventano fondamentali. Di abbraccio al coraggio, all’impegno del popolo di Sicilia, con l’invito alla conversione rispetto alle persone coinvolte». Tutto questo, aggiunge don Luigi, «è la fine di un lungo e inaccettabile ritardo delle coscienze rispetto a Chiesa e mafie».

E cita le parole di don Tonino Bello il 30 aprile 1992, poco prima delle stragi di Capaci e via d’Amelio: «È una Chiesa che, pentita dei troppi silenzi, passa il guado. Si schiera, si colloca dall’altra parte del potere, rischia la pelle e forse non è lontano il tempo in cui sperimenterà il martirio».

Poco più di un anno dopo verrà ucciso don Pino Puglisi, e il 19 marzo 1994 il parroco di Casal di Principe (Caserta), don Peppe Diana. Don Tonino vedeva «segni di primavera». Non riuscì a gioire per le parole di Giovanni Paolo II (morì il 20 aprile 1993).

Alle quali seguirono quelle di Benedetto XVI il 3 ottobre 2010 a Palermo: «Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo». E quelle di Francesco il 21 giugno 2014 nella Piana di Sibari: «La ‘ndrangheta è adorazione del male. E il male va combattuto, bisogna dirgli di no. I mafiosi sono scomunicati, non sono in comunione con Dio». Davvero quel 9 maggio aveva aperto una strada.


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