martedì 9 maggio 2023
Massimo Muratore, oggi assessore a Canicattì: quell’appello si sentì perché allora c’era molto silenzio
«La società civile reagì. Da lì nacque l'impegno»
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«Quel “grido” di Giovanni Paolo II fu una spinta miracolosa. Noi città di provincia siamo stati toccati dalla storia, si è aperta una breccia. Quelli che seguirono furono anni di primavera. Lo dico con entusiasmo, con la fortuna di chi l’ha potuto vivere». Così riflette Massimo Muratore, 30 anni fa studente universitario di giurisprudenza e giovane militante di Azione cattolica della quale poi è diventato presidente diocesano. Oggi è avvocato e assessore ai Lavori pubblici e urbanistica di Canicattì (Agrigento), il paese di Rosario Livatino. «Quella giornata ci portò all’impegno nella società. Io sono della stessa parrocchia di Livatino. Dopo la sua morte ci vedevamo quasi in un cenacolo di rifugiati coi suoi ex professori che ci parlavano di lui, come degli apostoli».

Dopo 30 anni cosa rimane di quel “grido del cuore”?
Molto è cambiato. Fu un grido perché allora c’era molto silenzio. Il suo valore attuale è il coraggio. Il Papa non valutò se quelle cose andavano dette o no, se il contesto era corretto. I contesti sono cambiati ma resta il metodo del coraggio, come ci invita a fare papa Francesco. Quelle parole ancora riscaldano per la novità e l’intensità.

Anche lei collega il “grido” del Papa all’incontro coi genitori di Livatino?
Il Papa vive il loro dramma umano che è altro che leggerlo sui giornali. Vide la carne viva del dolore. E si emozionò tantissimo fino poi a esplodere.

Perché quelle parole furono così importanti?
La cosa grandissima fu che dopo aver ammonito la mafia, chiamò i mafiosi alla conversione. Anche perché la mafia con la sua subcultura strumentalizza la religione. Ma il Papa fece capire la netta differenza. La fede dà coraggio e libertà e questo diventa democrazia, rispetto, contro la violenza.

L’appello del Papa ai siciliani venne raccolto?
È un’eredità. Certo oggi non vediamo più quella violenza mafiosa. Quella siciliana è una mafia silenziosa, di affari, intrecci, interessi politici.

Ma non è per questo più pericolosa?
Si insinua perché ha facilità di denaro. Però la sua base non è più la Sicilia. Certo la vicenda di Messina Denaro, la sua latitanza nella società natale, senza che nessuno lo veda, lo percepisca, è emblematica. C’è da fare attenzione.

Pochi anni fa, a Canicattì, c’è stata una grossa operazione che ha coinvolto mafiosi già coinvolti nell’omicidio di Livatino ma anche personaggi insospettabili. Non è preoccupante?
Certo. L’amministrazione comunale si è costituita parte civile in quel processo, per dare un chiaro segnale alla comunità. E come Comune abbiamo diversi immobili confiscati.

La politica siciliana ha fatto davvero i conti con la mafia rispetto a un passato molto buio?
Non penso del tutto. Anche la politica ha sofferto molto, penso a Piersanti Mattarella. Lui è morto perché con alcuni strumenti legislativi come la legge urbanistica, aveva colpito gli interessi mafiosi. Si vedeva che era possibile farlo. La politica che si riconosceva in lui lo faceva. Poi Giovanni Paolo II ci disse che era impossibile vivere ancora accettando il potere mafioso. La società civile reagì. È possibile cambiare.

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