lunedì 28 marzo 2022
A Ivano-Frankivsk, tra i volontari della Caritas impegnati nell’accoglienza (profughi anche loro): «Chi arriva ora dalle zone colpite ha visto l’orrore della guerra e si sente in colpa per esser vivo»
Alcuni sfollati nella palestra di una scuola pubblica di Ivano-Frankivsk, nell’Ucraina occidentale

Alcuni sfollati nella palestra di una scuola pubblica di Ivano-Frankivsk, nell’Ucraina occidentale

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Gli ucraini che oggi riescono a lasciarsi alle spalle gli orrori vissuti nelle città dell’Est e del Sud, tra evacuazioni rischiose e il tormento di quattro settimane di choc, sono sfollati molto diversi da quelli di un mese fa. È l’impressione che tutti hanno qui negli uffici della Caritas di Ivano-Frankivsk, città dell’Ucraina occidentale oggi rifugio per tanti abitanti in fuga di Kiev o per chi proviene da più lontano. «Abbiamo assistito a diverse ondate di persone in transito. La prima, che ha prodotto le enormi code al confine, era composta da sfollati in fuga soprattutto dalla capitale, in difficoltà certo, ma per la maggior parte in grado di cavarsela con risorse proprie» ci spiega Tetiana Stawnychy, presidente nazionale di Caritas Ucraina, in visita a Ivano-Frankivsk. «La seconda ondata ha coinvolto individui più vulnerabili, con minore margine di azione, forse con risorse economiche più limitate. Così, quella dinamica del correre tutti verso la frontiera ha iniziato a modificarsi, e il flusso a dividersi a metà, tra chi prosegue e chi resta qui».

La sfida maggiore per chi si occupa di assistenza in territorio ucraino è però posta da coloro che giungono ora. «Arrivano persone traumatizzate, da Kharkiv, Mariupol, Sumi, luoghi in cui si sono consumati scontri brutali. L’esposizione alla violenza è stata prolungata». Uno dei volontari la interrompe, come altri al lavoro per Caritas anche lui è sfollato. «Noi che ce ne siamo andati da Kiev il primo giorno eravamo colpiti dalle notizie, non dalle bombe. Qui, invece, abbiamo accolto persone che hanno assistito alla rovina delle loro città e hanno visto i morti», dice Mykola Volkogon. «Tutto il peso iniziale dell’accoglienza è stato sostenuto da ucraini che si sono presi cura di altri ucraini» prosegue la presidente. «Le grandi Ong non c’erano, i loro programmi erano nell’est. Noi abbiamo lavorato d’anticipo, con un piano di emergenza nel caso si fosse verificato il grande flusso che poi è avvenuto».

"Medicines, medicamentos, farmaci" le scritte sulla montagna di pacchi che in lingue diverse, a seconda del mittente, danno conto del tipo di aiuto. Arrivano dall’estero e vengono caricati su camion diretti nelle aree più martoriate del Paese. Lo sforzo maggiore, però, è quello rivolto agli sfollati sul territorio, 32mila nel capoluogo, 70mila in provincia, ma le cifre si riferiscono solo a chi chiede aiuto. Pasti caldi, materiale igienico, passeggini per le mamme che hanno abbandonato i loro nelle stazioni ferroviarie di mezza Ucraina, per salire su treni stipati. «Finora abbiamo assistito 4.780 persone. La distribuzione è cominciata il 27 febbraio, per 29 sfollati. Ieri sono stati 410» spiega Natalia Kozakevich della Caritas locale. La municipalità e diversi istituti religiosi gestiscono gli alloggi nelle scuole, in conventi e monasteri. «Rispetto alle prime settimane più gente resta qui. Lo capiamo dalle richieste, materassi, pentole, il necessario sul lungo periodo». Diversi psicologi sono attivi nella distribuzione, «perché a volte, sotto choc, anche capire di cosa si ha bisogno è complicato» dice una volontaria. Lo conferma Pavlo Horbenko, sfollato da Kiev e psicologo per Caritas. «Quello che serve a queste persone è sentirsi al sicuro, ma anche affrontare la sensazione di colpa che si sviluppa in chi è sopravvissuto ed è stato evacuato. Ho avuto le stesse esperienze di coloro che io sono qui ad aiutare».

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