sabato 21 novembre 2020
Pioveva a dirotto quella domenica. Le nubi, oscure, minacciose continuarono a scaraventare acqua dal cielo anche nei giorni successivi. Non potevo rimanere a casa, c’era bisogno anche di me...
L'immagine simbolo del terremoto che, il 23 novembre 1980, sconvolse l'Irpinia e la Basilicata

L'immagine simbolo del terremoto che, il 23 novembre 1980, sconvolse l'Irpinia e la Basilicata - Ansa

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Pioveva a dirotto quella domenica. Le nubi, oscure, minacciose continuarono a scaraventare acqua dal cielo anche nei giorni successivi. Non potevo rimanere a casa, c’era bisogno anche di me, giovane infermiere professionale, nei paesi dell’Irpinia, colpiti dal terremoto. Corsi. Fui “arruolato”. Con Massimo, un medico di Pozzuoli, fino ad allora sconosciuto, partimmo da Napoli.

Erano le prime ore della catastrofe che strappò la vita a più di duemila persone e a tante altre la cambiò per sempre; c’era ancora tanta incertezza, tanta confusione nell’organizzazione dei soccorsi. Le strade erano tutte interrotte, i casolari quasi tutti crollati o diroccati. Stampa e televisione rendevano noti i nomi dei centri più importanti: Conza, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni; ancora non potevano sapere delle tante minuscole contrade sperdute tra le campagne.

Una vera catastrofe si presentò ai nostri occhi di giovani con tanta buona volontà e pochissimi mezzi. La solidarietà che si sprigiona dal cuore dell’uomo nei momenti del bisogno è commovente. Ho visto ragazzi, giovani, anziani, calarsi negli angusti cunicoli da dove giungevano i lamenti e le invocazioni di aiuto di chi era rimasto prigioniero, ben sapendo di poterci rimettere la vita: la terra, infatti, continuava a tremare. Sono stato testimone di scene di una tenerezza e di una sofferenza immensi: mamme, papà, figli che dall’esterno chiamavano, incoraggiavano i loro cari sotto le macerie.

Si scavava con le mani e con i pochi attrezzi agricoli che si potevano recuperare. In genere, quel pianto, quelle invocazioni, lentamente, si affievolivano fino a spegnersi del tutto, tra la disperazione dei sopravvissuti. Gemiti, urla, strazio. Preghiere, invocazioni, imprecazioni, rabbia. Dolore indescrivibile. Laviano era un solo cumulo di macerie. I superstiti, trasportati a valle, venivano sistemati nel campo di calcio. In piazza, avvolte nelle coperte o adagiate nelle prime bare che iniziavano ad arrivare, le salme in attesa della sepoltura. A vegliarle, in quella notte da incubo, una sola persona, un vecchio, infreddolito, bagnato, claudicante. Ci fermammo. Decidemmo di tenergli compagnia.

«Siamo scappati alla prima scossa – ci disse – mia moglie, spaventata, corse avanti e fu travolta dal balcone. Io che ho difficoltà a camminare sono rimasto in casa, proprio in quell’angolo che non è crollato» ci raccontò tra i singhiozzi. Passammo con lui la notte. Una notte che non ho più dimenticato. Tre persone vive in mezzo a centinaia di fratelli e sorelle morti. Riflessione. La paura era scomparsa. Sarebbe ritornata, sotto forma di incubo, tante volte, nei mesi successivi.

E continuava a piovere. La campagna era diventata una sola immensa pozzanghera. Iniziarono ad arrivare i primi convogli con la solidarietà degli italiani, ma non c’era posto dove sistemare la merce. Il freddo che avvolse l’Irpinia in quel mese di novembre di quaranta anni fa, era pungente. Ai bordi dei sentieri, decine di persone, raggomitolate su se stesse, con un telo agricolo in testa, tentavano di ripararsi dalla pioggia. Ho sempre amato la pioggia, mi aiuta a riflettere, a studiare, a pregare; in quei giorni l’ho detestata. Uno scenario spaventoso. Pianto, dolore, morte ovunque.

Avevamo il compito di andare in avanscoperta a individuare i casolari isolati di cui non si avevano notizie e dare l’allarme. Un giorno, lungo la strada, ci imbattemmo in una costruzione in muratura, bassa, con la tettoia ancora integra e le porte chiuse. Ci fermammo per poterci riscaldare e riprendere le forze. Bussammo. Un miraggio. La bellezza della scena che ci si presentò davanti non mi ha mai più abbandonato. E mi ha fatto apprezzare le piccole cose. Quel casolare altro non era che una stalla. Una stalla enorme, con molte mucche e vitelli vivi e tanta, tanta paglia. Paglia preziosa, asciutta, calda, profumata. Nella stalla una trentina di persone, addolorate, attonite, recitavano il Rosario attorno a dei bracieri accesi. Una scena stupenda in mezzo a tanta distruzione. Un Requiem per tutti i morti nel terremoto dell’Irpinia. Un abbraccio grande a chi ha avuto la vita segnata da quell’evento. Un grazie a tutti i volontari che, incuranti dei pericoli, corsero ad aiutare i fratelli spinti solo dall’amore, l’unica cosa che il tempo non potrà offuscare.

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