giovedì 28 febbraio 2019
Oggi la Giornata delle malattie rare. Secondo la rete Orphanet Italia, nel nostro Paese i malati rari sono 2 milioni. La fatica delle famiglie.
Claudio con la moglie

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«Mi sento un privilegiato, non un menomato. Perché, pur con tutte le limitazioni della malattia, ho imparato ad affrontare i problemi in modo diverso e riesco a dare più valore alle cose spesso ritenute scontate. Per molti sono cose dovute, ma la vita è in realtà un grande dono». Claudio De Zotti ha 65 anni, vive alle porte di Torino, a San Maurizio Canavese, e non ha mai voluto perdere il sorriso.

A partire da giovanissimo, quando è stato costretto a portare un busto rigido, come presunto rimedio per un difetto di forza e spalle oblique. Alcuni medici parlavano di miopatia, altri di rachitismo, ma soltanto nel 1985 è arrivata la diagnosi corretta: distrofia facio-scapolo omerale (Fshd), una malattia rara che porta a una significativa e progressiva perdita dell’autonomia motoria.

«Avevo diversi problemi, ma continuavo ad andare a sciare e a fare tutto ciò che mi era possibile. Un giorno ho scoperto il Centro Dino Ferrari di Modena, poi sono stato indirizzato al Policlinico di Milano, all’Istituto di clinica neurologica diretto dal professor Scarlato, padre del moderno studio sulle patologie muscolari».

Le malattie definite «rare» sono quelle che colpiscono un numero assai ristretto di persone (nella Ue la soglia è di un individuo su 2mila) ma in tutta Europa più di 25 milioni di persone ne sono colpite.

Secondo la rete Orphanet Italia, nel nostro Paese i malati rari sono 2 milioni, 70% bambini in età pediatrica. Le malattie rare conosciute e diagnosticate sono più di 6mila (cifra in continua crescita, grazie ai progressi della ricerca scientifica), ma proprio a causa della loro rarità molto spesso non esistono cure o trattamenti efficaci.

Oggi si ricorda tutto questo con la «Giornata delle malattie rare», che quest’anno affronta l’integrazione tra assistenza sanitaria e sociale, necessità sempre più avvertita da chi deve affrontare una vita difficile. Claudio, ad esempio, dal 1992 usa la carrozzina, prima come aiuto e poi in modo definitivo, a seguito di una caduta che gli ha provocato la lesione del tendine rotuleo.

Ma neppure questo l’ha portato a perdersi d’animo: lavora in un’azienda dell’indotto della gomma, pratica l’hockey in carrozzina e diventa campione italiano nel 1997, partecipa come volontario alle Olimpiadi invernali di Torino 2006, prova il parapendio, lo sci per paraplegici, viaggia in Italia e all’estero portando con sé la sua immancabile macchina fotografica.

«Sono sempre stato allegro – racconta – e adesso gioisco per quello che posso fare senza disperarmi per quello che non riesco a fare. La carrozzina non è una condanna ma un ausilio che mi aiuta a migliorare la vita. La miglior cura resta comunque una serena accettazione. Dobbiamo rammaricarci soltanto per quello che dipende dalla nostra volontà, per i nostri errori o per le cose buone che non facciamo. È inutile alzarsi di cattivo umore perché piove: non smetterà di piovere perché siamo contrariati...».

Nell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (Uildm) Claudio ha trovato una seconda famiglia, un impegno costante, come tesoriere e consigliere nazionale ma anche nell’organizzare vacanze per gli altri associati. «Oltre a mia moglie Enrica, è stata decisiva la fede. Siamo piccoli ma facciamo parte di un grande disegno: sarebbe presuntuoso voler capire il significato di ogni cosa. Cerchiamo piuttosto di mettercela tutta in ciò che possiamo fare».

Leggi anche: Malattie rare la corsa a ostacoli delle famiglie

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