mercoledì 10 gennaio 2018
Per Italo Penco la confusione è intollerabile: «Le nostre terapie fanno perdere la coscienza nelle ultime ore di vita, non uccidono. Suicidio assistito? Falsa risposta»
Il presidente dei medici palliativisti: sedazione profonda non è eutanasia
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«La sedazione palliativa non provoca mai la morte. Al contrario è un atto di cura, il cui obiettivo è esclusivamente calmare il dolore quando la persona è giunta naturalmente al termine della vita e i farmaci non hanno più effetto contro la sofferenza». È solo il primo dei punti fermi che Italo Penco, presidente nazionale della Società italiana di cure palliative (Sicp) e direttore della Fondazione Sanità e Ricerca, pone per diradare la confusione nata dalle parole pronunciate da Marina Ripa di Meana prima di morire. «Il messaggio è positivo e fotografa in modo esatto la realtà, ovvero l’esistenza delle cure palliative e il diritto alla sedazione ove sia il caso, ma è vero che si presta a essere travisato quando la paziente afferma che, avendo scoperto l’esistenza delle cure palliative, non ha più dovuto andare in Svizzera per il suicidio assistito, come se le due pratiche fossero un’alternativa analoga. Sono due cose addirittura antitetiche».

In effetti può passare l’idea che la sedazione sia una forma soft di eutanasia. E certi commenti di qualche medico dalle posizioni eutanasiche molto note lo fanno pensare...

Niente di più sbagliato: eutanasia e suicidio assistito mirano a uccidere il paziente (e sono reati), le cure palliative sono una modalità di assistenza che aiuta le persone inguaribili a non soffrire, e sono una terapia.

Chi sono quindi i destinatari della sedazione profonda?

I malati negli ultimi giorni (o ore) di vita, se il sintomo è ormai refrattario al trattamento farmacologico. Nessun altro. È una sedazione terminale: fa dormire chi sta morendo, perché non senta il dolore.

Per intenderci, a un lungodegente cronico, a una persona in stato vegetativo, a un malato di Alzheimer, o di Sla, si potrebbe dare la sedazione profonda per porre fine alla loro vita?

Assolutamente no. La si dà a tutti pazienti affetti da qualsiasi patologia, ma se sussistono le due condizioni già dette: stadio terminale (in media dai tre giorni prima della morte in poi) e sin- tomi non più gestibili con i farmaci. Può essere presa in considerazione semmai nel caso specifico di un malato che anni prima abbia scelto il ventilatore e sia arrivato al punto in cui il suo corpo non lo tollera più, dunque gli viene staccato: a quel punto morirà, e sarà sedato perché non soffochi. Ma certo non per persone in stato vegetativo o con forme di demenza.

La sedazione è sempre indispensabile nel fine vita?

No, tra i malati terminali ne ha bisogno un 20%. Negli altri casi la morte ad esempio può essere gestita con i farmaci, oppure il malato diventa soporoso senza necessità di dargli nulla, o il decesso arriva improvviso... Occorre una grande competenza per somministrare le cure palliative, che vanno personalizzate sul singolo paziente con un mix di «scienza e umanità», come disse Cicely Sounders, la madre delle cure palliative negli anni ’60.

La sedazione profonda provoca mai la morte?

Mai. È come l’anestesia durante l’intervento chirurgico: addormenta, provoca la perdita di coscienza, non uccide. Non a caso si usa la benzodiazepina – il farmaco delle anestesie – modulato a seconda delle necessità, e solo in alcuni casi gli oppioidi.

Può abbreviare la vita?

Gli studi dimostrano che la sopravvivenza dei pazienti sedati in fase terminale non differisce da quella dei non sedati. Secondo uno studio pubblicato nel 2003 su Lancet Oncology, addirittura quelli che vengono sedati per un periodo superiore alla settimana prima del decesso sopravvivono più a lungo di quelli non sedati, e il perché è ovvio: immagini un malato che soffre, i cui sintomi si ripercuotono a catena... morirà prima e morirà male.

È vero, quindi, che il suicidio assistito è una falsa esigenza, perché esiste già in Italia il modo per non soffrire, come dice nel video Marina Ripa di Meana?

È così. Chi pensa al suicidio assistito? Chi ha paura del dolore e della solitu- dine, e le cure palliative si occupano a 360 gradi del fine vita non solo dal punto di vista fisico, ma della completa dimensione umana, ovvero dell’aspetto relazionale, psicologico, sociale, spirituale. Affrontano il cosiddetto 'dolore totale'.

Sono un diritto ormai dal 2010 (legge 38). Le pare credibile che una donna di mondo come la Ripa di Meana non ne sapesse nulla?

Ahimé sì, e lo dico per esperienza. Noi palliativisti non ci stupiamo più, anche le persone colte non sanno di questa possibilità, persino molti medici. Nei corsi di laurea le cure palliative non si insegnano, quindi i giovani medici che cosa potranno spiegare ai pazienti? Persino nelle scuole di specializzazione non esistono ancora i crediti formativi specifici. Soprattutto manca l’assistenza palliativa a domicilio, eppure morire a casa è un indice di qualità irrinunciabile.

Le 'battaglie' di Marco Cappato per eutanasia e suicidio assistito sono insomma un falso problema?

Spero che in Italia non si arrivi mai alle soluzioni che auspica. Lottiamo invece per le cure palliative, questa è la vera battaglia: la legge 38 è inapplicata, mancano risorse, non c’è mai stata la Conferenza Stato-Regioni per unificare le tariffe, eppure il principio di equità è fondamentale. Il dramma peggiore riguarda i bambini: 35mila ne avrebbero bisogno, solo 5mila le ricevono.

Non c’è il rischio che la nuova legge sulle Dat presti il fianco a forzature eutanasiche quando parla di sedazione palliativa? Indica chiaramente 'imminenza di morte' e 'sofferenze refrattarie ai farmaci'. Chi ne auspica l’uso come modalità per provocare la morte mente.

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