mercoledì 11 febbraio 2009
Parla l’arcivescovo emerito di Ravenna: la legge, se non è fondata sul bene dell’uomo, degenera in onnipotenza, e quindi in iniquità Ciò che ho visto in questi giorni è stato non applicazione della legge, ma puro formalismo, cioè il prevalere della forma sulla sostanza. La legge è vera solo quando rispetta i principi di umanità «Se vicende come quelle di Eluana accadessero ancora, dovremmo dire di essere in un’altra civiltà, rispetto a quella che abbiamo ereditato» «Non credo vi saranno altri casi Englaro. Né credo che il Paese arriverà ad accettare l’eutanasia. La matrice cristiana della gente è forte. Quanto avrei voluto parlare al padre Beppino Quanto avrei avuto da dirgli» «C’è una visione nichilista Ma non dobbiamo spaventarci. In Italia la pietà per i malati e deboli c’è ancora, profonda, ampia, anche se non fa rumore»
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«Le sentenze vanno esegui­te », aveva detto il procura­tore generale di Trieste po­che ore prima che Eluana morisse. Da­vanti alla tv, quando i telegiornali han­no annunciato che la sentenza era sta­ta eseguita, c’era anche, a Ravenna, il cardinale Ersilio Tonini. «È stato un do­lore, un dolore forte; perché in questi mesi Eluana era diventata figlia anche nostra». Ma accanto al dolore, un’a­marezza profonda: per una "giustizia" che ha portato fino a qui. I novanta­quattro anni di Tonini non gli impedi­scono di scandire a memoria una mas­sima giuridica antica, discendente dal­la tradizione del diritto romano: «Ho­minum causa omne ius constitutum e­st»: tutto il diritto è fatto per l’uomo. E dunque: «La legge, se non è fondata sul bene dell’uomo, degenera in onni­potenza, e quindi in iniquità», dice il cardinale. «Ciò che ho visto in questi giorni è sta­to non applicazione della legge, ma puro formalismo, cioè il prevalere del­la forma sulla sostanza». Mentre, si ap­passiona Tonini, «la legge è vera solo quando rispetta i principi di umanità. La vicenda di Eluana ci ha posti di fron­te alla radice stessa della nostra cultu­ra, a quella humanitas che sorge nel­la cultura greca e si compie nel cri­stianesimo». È, il modo della fine di Eluana Engla­ro, una svolta nella storia del nostro Paese, è un precedente che lascerà il segno? Certo, se cose simili accadessero an­cora, dovremmo dire di essere in un’al­tra civiltà, rispetto a quella che abbiamo ereditato. E certa­mente Eluana è sta­ta usata per affer­mare una cultura di­versa, in cui i deboli valgono meno dei forti. È il tentativo dello scardinamen­to dell’umano. Però, io non credo che ci riusciranno. Non dobbiamo spaven­tarci. In Italia la pietà per i malati e deboli c’è ancora, profon­da, ampia, anche se non fa rumore. Qui dove abito, all’Opera Santa Teresa di Ravenna, c’è una casa per bambini di­sabili gravi. Non sono solo curati, ma venerati e amati. Questa è l’Italia più vera. Uno "scardinamento dell’umano". È un’espressione che fa venire in men­te certe storie di ragazzi che bruciano un barbone, in una atroce caccia al più debole. Lei non ha, Eminenza, sen­tore di uno "scardinamento dell’u­mano" di fronte a certe tragedie trop­po frequenti? C’è l’allargarsi di una cultura nichilista, un gusto della potenza fisica, dell’effi­cienza; in sostanza, un superomismo. Non è peraltro la prima volta che que­ste idee compaiono nella storia: l’eli­minazione degli handicappati e dei malati di mente precede, nel nazismo, la persecuzione degli ebrei. Abbiamo visto tutto questo, e tuttavia l’Occi­dente si è ribellato e ha rifiutato que­sta logica. La novità, forse, sta nel fatto che si pensa al dare la morte come espres­sione d’amore. Davanti alla clinica di Udine, lunedì sera, c’è stata gente che ha applaudito. Eluana per loro è sta­ta "liberata". Eluana è stata usata, lo ripeto, da una cultura superomista, nicciana. Ma ab­biamo visto anche una forte reazione del Paese, e un tentativo di bloccare quella condanna. Io non credo che ci saranno altri casi Englaro. Né credo che l’Italia arriverà mai a accettare l’eu­tanasia. Non dobbiamo spaventarci. La matrice cristiana della nostra gen­te è forte. Parliamo del padre di Eluana, così cer­to di dover liberare con la morte la fi­glia. Come guardava lei, in questi gior­ni, al signor Englaro? Con trepidazione e tenerezza. Quan­to avrei voluto parlargli. Quanto avrei avuto da dirgli. Però è un padre che ha preteso la mor­te della figlia in base a una volontà per lui certa, ma mai apertamente con­fermata. È un padre che, come in cer­te civiltà antiche, ha avuto diritto di morte sulla figlia. Il problema è che in tanti padri e ma­dri oggi manca quella sorta di "reve­renza" per i figlio, che viene dalla co­scienza che quel figlio non è tuo, non ti appartiene. Solo apparentemente lo hai fatto tu. In realtà, ti è stato dato. Se manca questo fondamentale stupore grato davanti al figlio, che è un dono, si può credersene padroni. L’idea del figlio come dono sembra in de­clino. Un figlio oggi si programma e si pretende, se non ar­riva. Mia madre mi ripete­va sempre: io ti ho ri­cevuto dalle mani di Dio. Fin dalla prima infanzia ho avuto questa coscienza. Ri­cordo ancora le madri che, finito di fa­sciare il proprio figlio neonato, sulle bende tracciavano il segno della cro­ce. La coscienza di appartenere a Dio è la prima cosa che ogni madre cri­stiana dovrebbe trasmettere ai suoi fi­gli. Perché questa è la radice del senso religioso: lo stupore di fronte a ciò che non è nostro. Le suore della clinica di Lecco che per molti anni hanno accudito Eluana sembrano il modello di un altro amo­re possibile. Di un amore puramente gratuito, di un amore che non chiede nulla in cam­bio. Ho visto in tv una di queste suore, e ho pensato che fra tanta pressione per la morte di Eluana sui media è pas­sato anche qualcosa di diverso, qual­cosa che sembrava meravigliare gli stessi giornalisti che ne riferivano. La cura avuta da queste suore, in silen­zio, per tanti anni, è un miracolo, e te­stimonia di quale accoglienza è anco­ra capace questo nostro Paese. Secondo gli ultimi sondaggi, l’Italia e­ra divisa a metà fra chi chiedeva che Eluana vivesse e chi la voleva "libera­re". Però il maggiore consenso alla morte veniva dai ragazzi fra i 18 e i 24 anni. Io nutro molti dubbi sui sondaggi, spe­cie per argomenti come questo. Mi pa­re così arduo ridurre la realtà a una do­manda di poche parole, e pretendere poi in qualche ora di trasformarla in statistica e quindi in numeri... I nostri figli non sono diversi da noi. L’impor­tante è educare. E non con le prediche, ma facendo e mostrando ciò in cui cre­diamo. Qui al Santa Teresa, nella casa per bambini cerebrolesi, vengono dei ragazzi a guar­dare il lavoro delle assisten­ti. L’amore si trasmette coi fatti, non con le parole. Proprio tra i giovani, an­che se non solo, la vicenda di Eluana poneva un interrogativo frequente: che senso ha, che vita è, una vita co­sì? Questa è la pretesa di volere capire o­gni cosa, quando invece la vita del­l’uomo è essenzialmente un mistero. Se ragioniamo in termini di successo, efficienza, piacere, la vita di Eluana sembra non avere alcun senso, e i ma­lati come lei sono soltanto un peso. Ci sono cose che noi non possiamo pre­tendere di capire. Però, guardiamo che ruolo hanno avuto i malati nella sto­ria della nostra civiltà, e quale carità e capacità di cura si è messa in moto da quando il Medioevo cristiano aprì i pri­mi 'hotel Dieu' per togliere i mori­bondi dalle strade. La carità ha tra­sformato l’Occidente. Eminenza, lei ha 94 anni. È testimo­ne di tempi di cui la maggior parte di noi non ha alcuna memoria. Come si guardava alla morte, quando era bambino lei? Io posso dire della fattoria nella cam­pagna piacentina in cui sono nato. O­gni nascita e ogni morte era di tutti, ri­guardava tutti. Nessuno viveva per se stesso, nessuno era solo. Ora non è esattamente così, nelle no­stre città. Ma non bisogna spaventarsi. La vita ricomincia con ogni generazione. Io vedo qui a Ravenna di quale entusia­smo sono capaci dei ragazzi di 14 an­ni, se qualcosa e qualcuno li appas­siona. Non dobbiamo avere paura.
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