venerdì 13 giugno 2014
Il teologo Cozzoli (Lateranense): «Non deve mai esistere una connessione tra la morte e l’utilizzo del cadavere».
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L'utilizzo di qualcosa di sé per il progresso medico, e quindi per la cura e la guarigione di altri, si chiama carità terapeutica. «E la Chiesa – spiega Mauro Cozzoli, docente di Teologia morale presso la Pontificia Università Lateranense – la approva appieno. A patto che siano rispettate alcune precise condizioni».Professore, qual è la posizione del magistero sull’utilizzo del corpo post mortem a fini di ricerca? Unito all’anima nel decorso terreno della vita, il corpo biologico costituisce il vivente umano, per cui non ha un valore di uso al pari di una cosa o di uno strumento qualunque. Staccato dall’anima con la morte, il corpo diventa cadavere: come tale può essere destinato a finalità di studio, ricerca e formazione. Un fine nobile? Certo, perché motivato da carità terapeutica: vale a dire dall’utilizzo di qualcosa di sé per la cura e la guarigione di altri. Questa destinazione d’uso tuttavia – trattandosi del corpo di una persona – deve avvenire a precise condizioni. Quali? Innanzitutto, come ovvio, che ci sia stato in vita un consenso dell’individuo e che sia accertata la sua morte. A questo proposito, è anche necessario che non ci sia nessuna connessione tra la morte di una persona e la destinazione del suo corpo: che non si causi, in altre parole, la morte di qualcuno – sia pure in condizioni estremamente precarie e terminali di vita – per utilizzarne il corpo. E poi? In fase di sperimentazione e ricerca il cadavere deve essere trattato con rispetto e alla fine ridato alla famiglia per la sepoltura.
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