martedì 13 luglio 2010
Da ieri sono sui tavoli dei governatori le linee guida del ministero sull’uso della pillola abortiva nel nostro Paese. Punto nevralgico il regime di ricovero ordinario, auspicato anche dal Css. Roccella: «Tutti chiamati a tutelare la salute delle donne»
- Richieste scarse. Anche dove vige il day hospital
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Procedura abortiva della Ru486 interamente effettuata in ospedale. Lo prevedono le linee guida del ministero delle Salute, da ieri sui tavoli dei governatori e degli assessori alla sanità delle regioni. Nell’illustrarle il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, ha sottolineato che uno dei due capisaldi su cui si basano le indicazioni del suo discastero è il parere inviato dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi alla commissione europea. Un pronunciamento che ha valore normativo «nazionale», «più alto di quello delle regioni». Quindi un termine di paragone ineludibile. Altro «binario» seguito dalle linee guida sono i tre pronunciamenti del Consiglio superiore di Sanità (Css) sull’uso della pillola abortiva nel nostro Paese.La comunicazione inviata da Sacconi a Bruxelles a dicembre del 2009, quando come ministro del Welfare ne aveva la competenza, subordina l’immissione della pillola nel nostro Paese al rispetto della legge 194, cioè al fatto che la procedura abortiva sia interamente effettuata «in regime di ricovero ordinario nelle strutture sanitarie, in presenza di una specifica sorveglianza da parte del personale sanitario». Una presa di posizione, quella di Sacconi, che ricalcava quanto affermato già dalla commissione Sanità del Senato sulla messa in commercio del farmaco.I tre pareri del Css hanno sottolineato inoltre che il rischio per la donna del metodo farmacologico può essere pari a quello chirurgico solo se l’intera procedura avviene in regime di ricovero ordinario, anche per «la non prevedibilità» del momento in cui avviene l’espulsione del feto. Quindi le regioni «non possono non tener conto» del fatto che si tratta dei pareri della «più autorevole istituzione sanitaria del Paese» e di un livello normativo che le travalica, quello nazionale di un ministro. Tra i criteri non clinici indicati dalle linee guida, c’è la competenza linguistica, e più in generale la capacità di gestire una procedura, che anche se avviene in ospedale, è in parte autogestita dalla donna. Sono da escludere, poi, si afferma, «le minori senza il consenso dei genitori», considerando che «è difficile» la loro comprensione di tutta la procedura comportata dalla pillola. Il ministero raccomanda «il consenso pienamente informato» sul fatto che l’interruzione della gravidanza potrà essere effettuata «solo in ricovero ordinario», nella maggior parte dei casi con una «durata di tre giorni, fino alla espulsione del materiale abortivo». Si devono comunicare alle donne chiaramente le altre metodiche possibili, eventuali «effetti collaterali», «eventi avversi» e complicazioni comportati dell’uso Ru486 come emorragie e infezioni. È «fortemente sconsigliata la dimissione volontaria», aggiungono le linee guida, «prima del completamento di tutta la procedura perché in tal caso l’aborto potrebbe avvenire fuori dall’ospedale e comportare rischi anche seri per la salute della donna». Si richiede anche l’impegno «a sottoporsi alla visita ambulatoriale di controllo entro 14-21 giorni dalla dimissione».Il ministero ha già inviato agli assessorati i moduli per uno specifico monitoraggio sull’aborto farmacologico. «Quando avremo i primi dati certi, faremo il punto – ha detto il sottosegretario –. Se si riscontrasse che questi limiti non sono stati applicati, il governo dovrà trarne le conseguenze».La Roccella ha concluso esprimendo la ferma determinazione di salvaguardare quell’«alta vigilanza sociale» che caratterizza l’Italia nel contrasto dell’aborto, grazie alla convergenza di vari fattori, «orientamenti culturali, attenzione politica, capacità di intervento del volontariato, tenuta di un tessuto comunitario». Si deve evitare che la introduzione della Ru486 sia utilizzata per scardinare le tutele alla salute della donna offerte dalla legge italiana, come è avvenuto in Francia dove, dopo la introduzione della pillola, si è cambiata la normativa, diffondendo l’aborto a domicilio («à la ville»).
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