venerdì 21 marzo 2014
​Presi anche due italiani per i 7 morti in fabbrica. Ai domiciliari i fratelli proprietari dell’immobile: secondo gli inquirenti «non potevano non sapere»
La lezione di Prato Diego Motta
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Cinque arresti per il rogo della fabbrica-dor­mitorio di Prato in cui lo scorso primo di­cembre persero la vita sette operai cinesi. In carcere sono finiti i tre gestori di fatto del pron­to moda: due sorelle cinesi e il marito di una di lo­ro. Ai domiciliari i proprietari italiani del capanno­ne: i fratelli Giacomo e Massimo Pellegrini, soci del­la Mgf Immobiliare, ai quali viene contestata la stes­sa accusa: omicidio colposo aggravato plurimo. I sette operai cinesi morirono carbonizzati, sorpre­si all’alba dalle fiamme mentre dormivano nei sop­palchi in legno e cartongesso costruiti abusiva­mente nella fabbrica. Soltanto due di loro e i due gestori di fatto dell’azienda presenti al momento del rogo riuscirono a fuggire, uno di questi ultimi ri­mase ferito. Nel capannone mancavano uscite di sicurezza, e­stintori, maniglioni antipanico, o come recita l’or­dinanza di custodia cautelare firmata dal Gip: «Le violazioni accertate sono così gravi e onerose che non vi è da chiedersi quante norme siano state vio­late, ma quante piuttosto ne siano state rispettate». I dieci operai lavoravano quasi tutti a nero per 14/16 ore al giorno, anche di notte, senza riposo setti­manale. Una situazione diffusa nel distretto del pronto moda cinese a Prato: 4 mila imprese, un’e­vasione fiscale stimata in oltre un miliardo di euro l’anno. Aziende, quelle orientali, quasi sempre in affitto e mai proprietarie dei capannoni, per eludere il fisco, e intestate a prestanome: come la fanto­matica Li Jianli, la donna cinese che risulta titola­re della Teresa Moda in cui è avvenuta la tragedia, ma nei fatti è poco più che un fantasma, tuttora ir­reperibile nonostante abbia la residenza a Roma. A gestire l’attività - hanno ricostruito la squadra mobile e la guardia di Finanza di Prato - erano ma­rito, moglie e cognata, già pronti ad aprire una nuo­va ditta di confezione da intestare ad un’altra testa di legno. Per questo pericolo di reiterazione del rea­to sono scattati gli arresti, mentre ai due italiani è contestato il possibile inquinamento probatorio. L’indagine sul rogo di Prato rappresenta una svol­ta a livello giudiziario: per la prima volta la Procu­ra è convinta di aver raccolto prove sufficienti a di­mostrare che i proprietari dell’immobile erano a conoscenza della promiscuità tra lavoro e dimora e dell’inadeguatezza della struttura da un punto di vista della sicurezza. «Senza il loro operato la tra­gedia non sarebbe accaduta» ha detto il procura­tore della Repubblica Piero Tony, che ha spiegato co­sì il «concorso autonomo di cause indipendenti in materia colposa» che ha portato al drammatico in­cendio. Alla società immobiliare in città erano ri­conducibili altri capannoni, in condizioni precarie, affittati ad altri laboratori cinesi e sequestrati dalle forze dell’ordine. Uno di questi provvedimenti, di na­tura preventiva, è finalizzato alla confisca per l’equi­valente del profitto illecito che l’immobiliare avreb­be conseguito, dando in locazione l’immobile privo dei requisiti di sicurezza. L’avvocato Alberto Rocca, difensore dei due indaga­ti italiani, ha già presentato istanza di libertà al Tri­bunale del Riesame: «La misura cautelare, prevista per un mese, si basa sul presunto obbligo giuridico di vi­gilare su un proprio bene da parte del proprietario – afferma il legale –. È una tesi che non condividiamo e che è stata già bocciata da numerose sentenze».
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