Rutte e Meloni - ANSA
L’occasione della visita a Roma di Mark Rutte, l’olandese alla guida della Nato, ha consentito a Giorgia Meloni di specificare a quali condizioni l’Italia può dire «sì» all’aumento della spesa in armi sino al 5% del Pil, 3,5 di investimenti “diretti” e la restante parte in costi “paralleli”. La premier chiede ai vertici dell’Alleanza atlantica, e indirettamente all’amico Donald Trump che pressa sull’Europa, una triplice flessibilità. La prima, spalmare le spese in 10 anni, sino al 2035, e non nei 7-9 di cui si è sinora parlato agli incontri Nato. La seconda, non dover rispettare una “progressione di spesa”, ovvero non dover aggiungere una precisa percentuale di investimenti in più in difesa anno per anno, bensì “mettere i soldi quando ci sono”, se così si può dire. La terza flessibilità, non dare per assodato che il trend sia incontrovertibile, e dunque fissare al 2029 una sorta di «check», di verifica, per dire se bisogna continuare a far crescere la spesa o ci si può fermare. Punti che dovranno trovare consenso al vertice Nato fissato a L’Aja il prossimo 24-25 giugno.
Quella di Meloni è grossomodo la posizione del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ieri ha ospitato il vertice ministeriale definito “Weimar plus”. Per il leader di Forza Italia, in realtà, c’è un’altra condizione che andrebbe messa sul tavolo: l’Italia e l’Europa debbono impegnarsi con gli Usa per aumentare il loro contributo alla Nato, ma allo stesso tempo Washington deve mettere da parte i dazi.
Meloni e Rutte non hanno rilasciato dichiarazioni alla fine del loro incontro. E la nota di Palazzo Chigi è stata alquanto formale: «L’incontro - spiega il governo - ha permesso uno scambio approfondito in preparazione del prossimo vertice Nato, con particolare riferimento alle spese per la sicurezza collettiva e alla costruzione di un’industria per la difesa sempre più innovativa e competitiva, in complementarità con l’Ue. Nel corso del colloquio è stato riaffermato il sostegno all’Ucraina e il ruolo dell’Alleanza atlantica quale pilastro imprescindibile per la difesa collettiva, nonché l’importanza di un approccio a 360 gradi alla sicurezza euroatlantica».
Da questo tipo di note si comprende che le interlocuzioni devono proseguire. D’altra parte, il vertice Meloni-Rutte è stato preceduto dai dati forniti da Milex, l’Osservatorio sulla spesa militare italiana, che bilancio alla mano ha stimato un aumento di 100 miliardi della spesa pubblica per raggiungere il target del 5%. Obiettivi difficilmente digeribili in un Paese altamente indebitato come l’Italia.
La crudezza dei numeri si riflette nella posizione dettata al Senato dal ministro della Difesa
Guido Crosetto
, durante un question-time: «Il governo non ha concordato l’aumento delle spese per la Difesa al 5% del Pil. Indipendentemente dall'impegno Nato sono i Parlamenti nazionali a decidere sulla base dell'approvazione della legge di bilancio che viene discussa per due mesi.
La mia posizione è che è impossibile per l'Italia pensare di raggiungere il 5% o anche il 3,5%
. Per questo abbiamo indicato un aumento dello 0,2% annuo con uno spostamento della tempistica al 2035, per lasciare la disponibilità di decidere di investire o disinvestire ai vari governi che seguiranno».
È evidente che la linea all’interno dell’esecutivo non è definita. Molti i timori, come quelli che prova a nascondere
Matteo Salvini
quando afferma che tra le spese in sicurezza, in teoria, potrebbero essere conteggiate anche quelle per infrastrutture come il
Ponte sullo Stretto
. Ce n’è abbastanza per consentire all’opposizione di dire che «il governo dà i numeri» oppure, parole di Giuseppe Conte, che il governo sta passando «dallo stato sociale allo stato militare».
Quanto all’altro incontro ufficiale di Rutte, la ministeriale Weimar+ a Villa Madama, il clima è di fiducia circa la possibilità che i 32 partner Nato raggiungano un’intesa a L’Aja. Nessuno vuole offrire a Trump il pretesto di agitare la clava contro i partner europei dell’Alleanza. Perciò ottimistica è anche la dichiarazione congiunta adottata da Tajani, Rutte e dall’Alta rappresentante Ue Kallas insieme ai ministri degli Esteri di Francia, Germania, Polonia, Spagna e Gran Bretagna: «I paesi europei devono svolgere un ruolo ancora maggiore nel garantire la nostra sicurezza», assicurano agli Usa. Presente a Roma al loro fianco il ministro degli Esteri ucraino, Andrii Sybiha, che ha incassato la conferma dell’«incrollabile sostegno».
Tornando alla stima fornita da Milex, i numeri fanno comprendere perché il governo non è unito. "Raggiungere l’obiettivo del 5% in dieci anni significa passare dai 45 miliardi di oggi (35 in difesa e quasi 10 in sicurezza) a ben 145 miliardi nel 2035 (oltre 100 in difesa e quasi 44 in sicurezza), cioè oltre il triplo di oggi, con un salto di 100 miliardi: circa 66 miliardi in più per la difesa e 33 in più per la sicurezza. Per arrivare gradualmente a questi livelli di spesa saranno necessari aumenti annui nell’ordine dei 9-10 miliardi (6-7 miliardi in difesa 3-4 miliardi in sicurezza) per un ammontare complessivo decennale di 100 miliardi di risorse finanziarie aggiuntive da investire. Tutto questo porterà l’Italia a spendere in totale, nei prossimi dieci anni, quasi mille miliardi di euro in difesa e sicurezza (quasi 700 miliardi in difesa e quasi 300 in sicurezza)". Conti che vengono fatti partendo dal valore acquisito del Pil dell’anno scorso fornito dall’Istat (2.192 miliardi), considerando l’andamento del Pil nominale previsto per il triennio 2025-2027 nel Documento programmatico di bilancio del ministero dell’Economia e ipotizzando che il tasso di crescita del 2027 (+2,6%) del Pil nominale si confermi negli anni successivi. Ma i tassi di crescita potrebbero essere rivisti al ribasso, aumentando l'esborso.