sabato 18 marzo 2017
Un anno fa il primo corridoio umanitario, primo anche in Europa, realizzato da Sant'Egidio, Chiese evangeliche, Tavola valdese, Associazione Papa Giovanni XXIII: 30 siriani a Ravina
Fuggiti 12 mesi fa dall'orrore siriano, rinati nella casa trentina
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I due scuolabus della materna e delle elementari si inerpicano sulla collina e spalancano le portiere davanti alla grande casa trentina in pietra. I bambini, una quindicina, corrono verso gli adulti in attesa sulla stradina e tutti si abbracciano in festa: sono un’unica famiglia, come da noi non se ne vedono più. I saluti durano minuti, impossibile distinguere i genitori dagli zii, i fratelli dai cugini: sotto un cielo azzurrissimo, tra i monti del Trentino, nulla è più lontano della guerra.


Eppure fino a un anno fa per i trenta siriani di Villa San Nicolò a Ravina, la guerra era l’unica compagna, notte e giorno, estate e inverno, senza scampo: rasa al suolo nel 2011 la loro città, Homs, uccisi o arrestati gli amici e i familiari, non restò che fuggire dalla Siria e provare a sopravvivere nei campi profughi del Libano, per tetto una tenda di plastica e legno, per pavimento il fango. «Tre anni e mezzo abbiamo resistito nel campo di Tell Abbas in attesa della pace, che non è mai tornata», racconta nonna Badheea, 54 anni, madre la prima volta a 14, vedova a 37. «Poi nel 2015 neanche il Libano ci volle più e capimmo che l’unica strada sarebbe stata salire anche noi sui barconi, ma avevamo paura ad attraversare il mare con i bambini... Se non lo abbiamo fatto, è solo grazie a quei ragazzi italiani che vivevano lì come noi in una tenda e ci chiedevano di sperare, ci davano coraggio e protezione, ci davano tutto. Finché un giorno al campo profughi vennero altri italiani loro amici e ci dissero una cosa difficile da credere: io, i miei figli e i nipotini potevamo lasciare il Libano senza affidarci ai trafficanti e affrontare la traversata, in Italia saremmo arrivati grazie a una nuova cosa che chiamavano "corridoio umanitario". Era vero: atterrammo a Roma il 29 febbraio, un anno fa».


Racconta seduta a terra sui cuscini, mentre i 17 nipotini si contendono le sue braccia accoglienti e lei, con fierezza matriarcale, si issa i due più piccoli sulle spalle. Fawzi è l’ultimo nato in Libano, partito per Fiumicino a tre mesi. Più piccolo di lui è solo Habudi, nato 7 mesi fa in Trentino, «l’unico di noi che non ha mai visto le bombe», sorride Abu Rabih, 38 anni, padre di altre tre bambine. La stessa sera di un anno fa i 29 siriani (oggi 30) arrivarono a Villa San Nicolò, sbalzati in poche ore dal delirio della guerra alla grande casa, un tempo residenza estiva del vescovo, messa a disposizione dall’arcidiocesi di Trento. «Dopo anni dormivamo di nuovo in un letto! I più piccoli per la prima volta». Gli adulti portavano nel corpo le schegge delle bombe, nello spirito ferite più lunghe da guarire.


Tante cose sono cambiate in dodici mesi di "corridoio umanitario", il primo in assoluto in Europa, importante a livello di bilanci. A spiegare come funziona è Fabrizio Bettini, uno dei «ragazzi italiani» citati da Badheea, i volontari di Operazione Colomba (il corpo civile di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII) che da quando in Siria è scoppiata la guerra vivono a rotazione in mezzo alle vittime: «Un’intesa siglata nel dicembre 2015 tra governo, Comunità di Sant’Egidio, federazione delle Chiese evangeliche in Italia, Tavola Valdese e Comunità Papa Giovanni XXIII ha permesso di mettere in protezione un gruppo di famiglie particolarmente vulnerabili e farle arrivare qui in sicurezza». La fase più dolorosa è stata la scelta, chi portare in salvo e chi lasciare lì, un compito toccato alla Operazione Colomba proprio perché unica presenza internazionale che viva in mezzo a loro. «Abbiamo scelto 93 profughi, oggi distribuiti tra Trento, Reggio Emilia e Torino... ma la nostra tenda a Tell Abbas è sempre meta di pellegrinaggio.».


Il modello trentino di accoglienza mira a un’integrazione vera con la cittadinanza e a far sì che i migranti diventino presto autonomi. A questo tendono le attività quotidiane, gestite dai due grandi protagonisti, la Provincia autonoma di Trento con il Cinformi (unità operativa per l’immigrazione) e l’arcidiocesi di Trento con la Fondazione Comunità Solidale della Caritas, in un perfetto ingranaggio di sussidiarietà: ogni giorno lezioni di italiano, corsi di formazione al lavoro e al volontariato, sostegno medico e psicologico per le vittime del conflitto, iniziative di amicizia con la popolazione locale. «Stiamo raccogliendo i loro curriculum per avviarli al lavoro», spiega Mauro Pizzini della Fondazione Comunità Solidale, «cosa a loro possibile perché, grazie a questa forma di accoglienza straordinaria, sono già rifugiati politici».

«Mi pesa dipendere dagli aiuti e spero di lavorare presto. A settembre abbiamo fatto la vendemmia e ci siamo guadagnati il pane», interrompe Abu Rabia, che in Siria era capocantiere edile. «A Homs prima che i missili distruggessero la città non avevamo problemi economici, il vero problema era la libertà, vivere sotto un regime sanguinario come quello di Assad è impossibile, vietato parlare, vietato pensare, tu stessa come giornalista per pubblicare questo articolo dovresti passare per la censura. Oggi sei anni fa scoppiava la guerra e non è più finita...». Badheea racconta dei 27 bambini «seviziati e uccisi per rappresaglia dall’esercito regolare perché su un muro i ribelli avevano scritto la parola "libertà"» e attorno a lei gli sguardi dei suoi otto figli, cinque uomini e tre donne, si fanno cupi. Alcuni dei suoi generi sono in Svezia, partiti per cercare un futuro prima del "corridoio umanitario", tra questi Ahmad, oggi arrivato a Ravina per rivedere i suoi bambini dopo tre anni: «Non mi riconoscevano più», dice in arabo stringendoli. È il Cinformi ad aiutarlo nelle procedure per il ricongiungimento in Svezia.


«Il modello trentino si basa su due pilastri: da una parte dare sempre ai migranti qualcosa da fare, dai lavori di pubblica utilità ai corsi formativi per acquisire competenze, dall’altra evitare i grandi assembramenti attraverso l’accoglienza diffusa in piccoli nuclei, così da non creare squilibri nella popolazione», nota Andrea Cagol di Cinformi. Due volte a settimana le famiglie trentine portano le madri siriane a fare la spesa in macchina, mentre gli studenti delle superiori, coordinati dalla Caritas, aiutano i piccoli a giocare e a studiare. Sono nate amicizie, inviti a cena, reciproca fiducia. Un equilibrio che sa di miracolo, ma che presto subirà di nuovo un cambiamento: il progetto prevede che ora la famiglia lasci Villa San Nicolò e si divida in quattro paesi trentini. La cosa li spaventa, ma è la via per rendersi autonomi, trovare un lavoro, imparare meglio la lingua.
Un problema che non hanno i piccolini, bravissimi interpreti. A vederli diresti che della guerra non ricordano nulla, ma dentro di loro la memoria ha lavorato. Sorride, Badheea, 9 anni, ma il suo sogno è molto più adulto: «Cosa vorrei fare da grande? Costruire un grandissimo ospedale per le ragazze».


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