venerdì 20 aprile 2018
Il ricatto di Cosa nostra allo Stato per ottenere benefici e fermare la furia delle stragi ci fu: dopo un processo lungo 5 anni sentenze dure per uomini dello Stato e alcuni capi mafiosi.
Il tribunale di Palermo in una foto dell'archivio Ansa

Il tribunale di Palermo in una foto dell'archivio Ansa

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La trattativa, anzi il ricatto di Cosa nostra allo Stato per ottenere benefici e fermare la furia delle stragi, ci fu e costituisce un reato ben preciso, di cui sono ritenuti colpevoli alcuni boss mafiosi e uomini delle istituzioni. È una sentenza dura quella emessa questo pomeriggio, dopo quasi cinque anni di processo, dalla seconda sezione della Corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto. Inflitti 12 anni agli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni; 12 anni all’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri; 8 anni all’ex colonnello del Ros, Giuseppe De Donno; 28 anni al boss e cognato di Totò Riina, Leoluca Bagarella, e 12 al boss Antonino Cinà, tutti accusati di violenza a corpo politico dello Stato.

La sentenza attribuisce la responsabilità agli ufficiali del Ros per il periodo 1992-93; a Dell’Utri, per il periodo del governo Berlusconi, ossia 1994, una sorta di seconda fase della trattativa. Condannato anche Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, a 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, e assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

Assoluzione piena, invece, per l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. Giovanni Brusca, ex boss sanguinario e stragista di San Giuseppe Jato, il primo a parlare della trattativa nel ’96 (la cui esistenza era già stata confermata dalle motivazioni della sentenza della strage di via dei Georgofili a Firenze), assolto grazie alla prescrizione, beneficiando dell’attenuante speciale per i collaboratori di giustizia.


Un popolo di cronisti e semplici cittadini ad assistere a questo storico verdetto. Anche molti rappresentanti delle associazioni che difendono le vittime di mafia, tra cui Libera, e poi le Agende Rosse e Scorta civica, hanno sostenuto con cori e applausi le ragioni della Procura nell’aula bunker del carcere Pagliarelli gremita. «Ce l’abbiamo fatta, grazie, grazie per averci creduto» dicono ai magistrati. Fanno il tifo per loro, parafrasando un’espressione che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dissero ai tempi dell’avvio del maxiprocesso.

Tra i banchi dei pm l’emozione è intensa. Si presentano a ranghi completi, accanto al procuratore aggiunto Vittorio Teresi ci sono Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, questi ultimi due ormai alla Direzione nazionale antimafia. Trema la voce di Nino Di Matteo, mentre parla di «sentenza storica. In questi anni è stato detto di tutto su di noi e su questo processo». E aggiunge: «La trattativa ci fu. La Corte ha avuto la certezza e la consapevolezza che, mentre in Italia esplodevano le bombe, qualche esponente dello Stato trattava con Cosa nostra e trasmetteva la minaccia di Cosa nostra ai governi in carica. Credo e spero che oltre ai fatti oggettivamente emersi, il giudizio della Corte debba costituire uno stimolo per proseguire a tutti i livelli le indagini sulle stragi, per accertare a livello giudiziario e politico se, assieme ai macellai di Cosa nostra, possano essere configurate altre responsabilità per il concorso in strage».

Scarica la tensione abbracciando la moglie e stringendo la mano a tutti gli attivisti l’aggiunto Teresi, che dedica questa sentenza proprio «a Paolo Borsellino, a Giovanni Falcone e a tutte le vittime innocenti della mafia». «Va analizzato il dispositivo che in linea di massima ha confermato la tesi principale dell’accusa sull’ignobile scambio, chiamato semplicemente trattativa, ma che nascondeva il ricatto fatto dalla mafia allo Stato e a cui si sono piegati alcuni elementi delle istituzioni – aggiunge –. È un processo che bisognava fare a tutti i costi».

Attoniti i legali dei vari imputati, che annunciano battaglia in appello. «È una sentenza inaspettata sicuramente – afferma il legale di Dell’Utri, Giuseppe Di Peri –. C’è un periodo nel quale Dell’Utri è stato assolto, che sembrerebbe quello precedente al governo Berlusconi, e un altro in cui ha riportato una condanna estremamente pesante a 12 anni».

«Sbigottito» si definisce Basilio Milio, avvocato dell’ex generale dei carabinieri, Mori, assolto nei precedenti processi per aver favorito la latitanza di Provenzano e per la mancata perquisizione nella casa di Riina. «Ma è un giorno di speranza – afferma – perché possiamo sperare che in appello ci sarà un giudizio, finora c’è stato un pregiudizio. Durante il processo non sono stati accolti 200 documenti e 20 testimoni».

Mancino: sono stato vittima di un teorema

«Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo "uomo", che tale è stato ed è tuttora. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa, benché il mio capo di imputazione, che oggi è caduto, fosse di falsa testimonianza - dice -. Relegato per anni in un angolo posso ora dire di non aver atteso invano. Ma che sofferenza!».

Quanto è durato il dibattimento

Il dibattimento, iniziato il 27 maggio 2013, è durato quasi cinque anni, per un totale di oltre 220 udienze, l’audizione di più di duecento testimoni, uno dei quali di assoluta eccezione, il Presidente della Repubblica in carica nel momento in cui depose - il 28 ottobre 2014, al Quirinale - Giorgio Napolitano.

Chi erano gli imputati

Tra gli imputati, i boss mafiosi Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà (Totò Riina è morto a novembre), gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno; Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, l'ex senatore Marcello Dell'Utri e l'ex ministro Nicola Mancino.

Quest'ultimo deve rispondere del reato di falsa testimonianza, Ciancimino, al tempo stesso testimone-chiave (assieme al pentito Brusca) e imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro.

Tutti gli altri sono accusati di violenza a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Il 26 gennaio scorso, i pubblici ministeri Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e gli attuali sostituti della direzione nazionale antimafia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, hanno formulato le richieste di condanna.

La trattativa Stato-mafia: quali obiettivi?

La trattativa sarebbe stata finalizzata a far cessare gli attentati e le stragi del 1992 e del 1993, a indurre lo Stato a piegarsi alle richieste di Cosa nostra. Tutto partirebbe all’indomani della sentenza in Cassazione del maxiprocesso del gennaio 1992, quando Cosa nostra decise di eliminare gli amici “traditori” e i grandi nemici. Così, nel giro di pochi mesi furono uccisi l'eurodeputato Dc Salvo Lima, ma anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ma per i magistrati, oltre alla vendetta, l'obiettivo di Cosa nostra era anche quello di ricattare lo Stato. Così furono organizzati una serie di attentati per mettere in ginocchio le istituzioni. Secondo l’accusa, la trattativa sarebbe proseguita anche oltre l’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993.

Cosa è accaduto durante il processo?

Sono accadute tante cose nel corso del processo: la morte dei due capimafia corleonesi, Riina e Provenzano, il conflitto istituzionale per l’inutilizzabilità delle telefonate di Giorgio Napolitano, l’arresto di Massimo Ciancimino, la scelta di Antonio Ingroia, padre dell’inchiesta, di scendere in politica, mentre oggi fa l’avvocato.

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