mercoledì 17 novembre 2021
Le diagnosi dimezzate nell’anno della pandemia: così il ritardo nella scoperta del virus alimenta i contagi sommersi e diminuisce le probabilità di guarigione con le terapie antivirali
Mai così pochi casi di Hiv in Italia, ma non è una buona notizia. Ecco perché

Ansa/Epa

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Magari avessero pesato solo lockdown e restrizioni, con la diminuzione delle relazioni sociali e – quindi – anche dei rapporti sessuali. Calano in Italia i casi di Hiv, ma l’emergenza Covid ha ben altre responsabilità: prima di tutte, quella di aver bloccato le diagnosi. Che significa far correre di più l’Aids (in maniera sommersa) e veder aggravare i pazienti che ne sono affetti (visto che non iniziano le cure con gli antivirali).

Non sono buone notizie quelle che arrivano coi dati pubblicati dall’Istituto superiore di Sanità (Iss) sul suo sito istituzionale. Nel 2020, sono state segnalate 1.303 nuove diagnosi di infezione, un numero quasi dimezzato rispetto al 2019, che prosegue il trend già in progressiva diminuzione osservato negli ultimi dieci anni.

«Rispetto al 2019 – commenta Barbara Suligoi dell’Iss – il numero di nuove diagnosi è crollato molto probabilmente per la pandemia e le restrizioni di aggregazione». L’incidenza in Italia è stata inferiore a quella media nell’Unione Europea (2,2 contro 3,3 nuovi casi per 100.000 residenti). La quasi totalità dei casi (88%) è, come naturali da attribuire a rapporti sessuali: maschi con maschi per il 46% e rapporti eterosessuali per il 42%.

Tra gli uomini, più della metà delle nuove diagnosi Hiv è attribuibile a rapporti omosessuali. La fascia d’età compresa tra i 25 e i 29 anni è quella con la maggiore incidenza, più che doppia rispetto all’incidenza totale (5,5 contro 2,2 nuovi casi per 100.000 residenti): un’altra cattiva notizia, segno che la consapevolezza sui rischi del virus e sulle modalità di contrarlo è bassissima tra i più giovani.

«Purtroppo – spiega Suligoi – sei su dieci nuove diagnosi di Hiv vengono identificate in ritardo, cioè in persone con una situazione immunitaria gravemente deficitaria, o addirittura già con sintomi di Aids. Questo ritardo pregiudica l’efficacia delle terapie antivirali». Infatti, mentre una terapia antivirale iniziata in fase precoce di infezione e in una persona giovane consente una qualità e un’aspettativa di vita analoghe a quelle di una persona senza Hiv, «una diagnosi tardiva e quindi un inizio tardivo di terapia riduce le probabilità di successo».

Inoltre, le persone con diagnosi tardiva possono aver involontariamente trasmesso l’Hiv ad altre persone, contribuendo così ad alimentare un “sommerso” di casi non ancora diagnosticati che in Italia si aggira intorno alle 13.000-15.000 persone.

Sulla percezione circa la circolazione dell’Hiv, di cui si diceva poco fa, è molto bassa nella popolazione generale oltre che nei giovani, afferma il report dell’Iss, che avverte: «È fondamentale invitare le persone che si fossero esposte ad un contatto a rischio, in particolare nell’ultimo anno e mezzo, ad effettuare un test Hiv: questo periodo di restrizioni da Covid può aver impedito o scoraggiato molte persone a recarsi presso le strutture sanitarie dedicate. In questo senso risultano estremamente utili le iniziative per effettuare il test Hiv in sedi extraospedaliere ed informali, quali check-point, laboratori mobili, test in piazza, test rapidi, che eliminano le remore o la vergogna di rivolgersi ad una struttura sanitaria».

Dal 22 al 29 novembre, a questo proposito, si terrà la Settimana europea per i test Hiv ed epatiti virali, con iniziative gratuite di test in tante città italiane.





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