venerdì 22 marzo 2019
Legambiente diffonde il rapporto sullo stato di salute idrico del nostro Paese. Troppe le lacune e le criticità, ma ci sono anche buone notizie
L'Italia dell'acqua inquinata. Tra batteri, Pfas e poche bonifiche
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Inquinate. Sprecate. Non tutelate. Le acque italiane non godono certo di buona salute. A lanciare l’allarme – alla vigilia della Giornata mondiale dell’acqua che si celebra oggi – è Legambiente, che nel suo rapporto "Buone e cattive acque" scatta una fotografia di casa nostra tutt’altro che tranquillizzante.
Si comincia con la contaminazione da Pfas della falda acquifera tra le province di Vicenza, Verona e Padova, che coinvolge 400mila persone. È questo, al momento, il caso più grave di inquinamento chimico di origine industriale del Paese e proprio ieri si è saputo che lo sversamento di veleni si sarebbe potuto arrestare già nel 2006. A renderlo noto è stata Greenpeace, che ha riportato quanto emerso dalle indagini dei Carabinieri del Noe nell’ambito del procedimento penale aperto dalla procura di Vicenza a carico di 13 ex manager dell’azienda Miteni di Trissino, presunta responsabile del disastro ambientale. Da quanto emerso, la provincia di Vicenza, messa al corrente del fatto che dai monitoraggi era emerso «in un paio di casi un incremento significativo» dei livelli di contaminazione di Benzotrifluoruri tra il 2003 e il 2009, non avrebbe informato altri enti, né chiesto verifiche da parte dell’Agenzia regionale per l’ambiente. Ma proprio ai tecnici Arpav, i carabinieri imputano responsabilità ancora più gravi. Tutto ruota attorno alla barriera idraulica che Miteni ha sempre dichiarato di aver installato nel 2013 per contenere la contaminazione. Le indagini tuttavia provano interventi sull’infrastruttura da parte di personale dell’agenzia già a partire dal 2006 e gli inquirenti arrivano a scrivere nero su bianco che si tratta di «volontà dei tecnici Arpav di non voler far emergere la situazione» di inquinamento. Un fatto che ha bloccato per oltre un decennio l’avvio della bonifica, tuttora lontano. Tutti fatti che potrebbero finire in un secondo filone d’inchiesta che (come risulta ad Avvenire) la Procura di Vicenza avrebbe già avviato.
Le acque “cattive” non sono però solo quelle venete. I Pfas sono emersi da poco anche in provincia di Alessandria, a Spinetta Marengo, a ridosso dello stabilimento Solvay. Sempre in Piemonte, nel Lago d’Orta dichiarato batteriologicamente morto a causa dei metalli pesanti, negli ultimi tempi sono stati rilevati altri episodi di inquinamento. L’inquinamento avanza, a causa dei ritardi negli interventi, anche nelle valli laziali del fiume Sacco, dove diversi territori sono in ginocchio. Un ruolo tutt’altro che trascurabile lo rivestono le pratiche di agricoltura non sostenibile, monitorate in particolare in Emilia Romagna: nei bacini idrici del Burana Navigabile nel ferrarese, del Torrente Samoggia nel bolognese, del Fiume Uso nel riminese e del Torrente Arda nel piacentino, dove si sono misurati i valori più alti di pesticidi nel 2017. C’è poi il caso del fiume Sarno in Campania, infestato dai reflui scaricati direttamente nell’alveo, e del canale scolmatore a nord di Milano, costruito per mitigare il rischio idrogeologico e trasformatosi in una «fogna a cielo aperto». Non mancano le storie di acque salvate, spesso grazie ai “contratti di fiume o di lago” che uniscono pubblico, privato e cittadini e hanno portato alla salvezza del sottobacino Lambro settentrionale o "Brianzastream" per il Seveso. “Salvati” anche il canale navile di Bologna e il fiume Olona.
I dati tuttavia rimangono negativi. In base ai monitoraggi eseguiti per la direttiva comunitaria Quadro Acque tra il 2010 e il 2015, solo il 43% dei 7.494 fiumi sono in «buono o elevato stato ecologico», il 41% invece stanno al di sotto dell’obiettivo di qualità previsto e il 16% addirittura non è ancora classificato. Ancora più grave la situazione dei 347 laghi, di cui solo il 20% è in regola con la normativa europea.

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