venerdì 20 maggio 2016
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Dobbiamo essere la voce di chi non ha voce, «troppo debole e incapace di far sentire il suo grido », ovvero di chi è afflitto «dalla tragedia della violenza e della migrazione forzata ». È questo l’imperativo morale che il Papa ha rivolto ieri agli ambasciatori di Estonia, Malawi, Namibia, Seychelles, Tailandia e Zambia, ricevuti in occasione della presentazione di rito della lettere credenziali. «Dobbiamo essere risoluti nel far conoscere al mondo la loro condizione critica» ha detto Francesco, che riferendosi al ruolo dei suoi interlocutori ha ricordato che «la via della diplomazia ci aiuta ad amplificare e trasmettere questo grido attraverso la ricerca di soluzioni alle molteplici cause che stanno alla base degli attuali conflitti ». E «ciò si attua specialmente negli sforzi di privare delle armi quanti usano violenza, come pure di mettere fine alla piaga del traffico umano e del commercio di droga che spesso accompagna questo male». Riferimenti, questi, che colgono problemi veri e drammatici di alcuni dei Paesi rappresentati ieri all’udienza. Le parole di Francesco riprendono un tema a lui particolarmente caro, ma sembrano anche raccogliere l’eco di numerosi interventi dei suoi predecessori. Ricordano per esempio quanto disse san Giovanni Paolo II in uno dei suoi primi viaggi apostolici, quello in Burkina Faso nel maggio 1980: «Io sono qui la voce di quelli che non hanno voce: la voce degli innocenti morti perché non avevano acqua e pane; la voce dei padri e delle madri che hanno visto morire i loro figli senza capire, o che vedranno sempre nei loro figli le conseguenze della fame patita; la voce delle future generazioni le quali non devono più vivere con la terribile incombente minaccia sulla loro esistenza». Il reiterato appello di Bergoglio passa per una sottolineatura, non scontata: «Le nostre iniziative in nome della pace dovrebbero aiutare le popolazioni a rimanere in patria». Questo per non dimenticare che il vero bene di profughi e migranti «forzati» è quello di sfuggire all’esperienza dell’esodo personale e familiare, di poter vivere e prosperare nella propria terra, fra la propria gente. Detto ciò, lo sguardo va rivolto all’oggi: «il momento presente ci chiama ad assistere i migranti e quanti si prendono cura di loro» e noi «non dobbiamo permettere che malintesi e paure indeboliscano la nostra determinazione». Richiamando quanto detto in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno pochi giorni fa, il Papa ricorda che oggi siamo «chiamati a costruire una cultura del dialogo che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. In tal modo promuoveremo un’integrazione che rispetti l’identità dei migranti e preservi la cultura della comunità che li accoglie, e arricchisca al tempo stesso entrambi». Questo è essenziale, ribadisce Francesco: «Se incomprensione e paura prevalgono, qualcosa di noi stessi è danneggiato, le nostre culture, la storia e le tradizioni vengono indebolite, e la pace stessa è compromessa. Quando d’altra parte noi favoriamo il dialogo e la solidarietà, a livello sia individuale che collettivo, è allora che sperimentiamo il meglio dell’umanità e assicuriamo una pace duratura per tutti, secondo il disegno del Creatore». © RIPRODUZIONE RISERVATA Il Papa riceve le lettere credenziali dall’ambasciatore del Malawi (Osservatore Romano)
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