giovedì 22 marzo 2012
​Don Manto (Cei): le nostre strutture costano il 70% in meno. Ma ci penalizza il deficit di programmazione regionale. Il ruolo delle realtà sanitarie di ispirazione cristiana ribadito anche dal vescovo di Lodi, Giuseppe Merisi: «Il nostro servizio  per il bene comune».
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​Sanità cattolica, un bene che rischia di non essere abbastanza valorizzato nel welfare italiano, alle prese con piani di rientro regionali e bilanci sempre ridotti all’osso. Ma il modello di presa in carico e di umanizzazione delle cure che gli istituti di ispirazione cristiana garantiscono nel nostro Paese è ben noto alla popolazione e non merita di essere trascurato. Al convegno sul significato della presenza cattolica in sanità, organizzato ieri al Centro Sant’Ambrogio dei Fatebenefratelli a Cernusco sul Naviglio (Milano) in ricordo di fra Pierluigi Marchesi, è emersa la fondamentale qualità degli ospedali religiosi. Per merito di fra Marchesi, è stato ricordato al convegno, la parola umanizzazione ha trovato spazio nella sanità, e la sanità cattolica ne ha saputo fare tesoro, ha sottolineato il vescovo di Lodi Giuseppe Merisi, presidente della commissione episcopale per la carità e la salute della Cei, privilegiando l’ascolto: «C’è un’ampia consultazione, sia tra i direttori diocesani degli uffici di pastorale della salute, sia nella consulta del volontariato, sia al tavolo regionale delle istituzioni sanitarie di ispirazione cristiana; quello che diciamo sia alle istituzioni sia alle diocesi nasce da un ascolto». «Nei confronti della società civile – ha aggiunto – siamo convinti di rendere un servizio al bene comune». Tuttavia sono sotto gli occhi di tutti gli addetti del settore le enormi difficoltà in cui molte strutture sono costrette a sopravvivere. Che fanno dire al responsabile dell’Ufficio nazionale per la pastorale della sanità della Cei, don Andrea Manto, che «occorre una maggiore attenzione nella programmazione degli organi pubblici verso queste realtà». Un recente censimento delle opere sanitarie e sociali ecclesiali (alcuni dati sono stati anticipati sul Sole24Ore-Sanità) ha messo in evidenza la capillarità della loro presenza nel Paese (anche se la metà è concentrata al Nord Italia) e il peso fondamentale dei volontari (due terzi) nella loro gestione. «Le strutture sanitarie cattoliche – ricorda don Manto – sono tutelate nel loro servizio al bene comune dalla legge Mariotti del 1968, e questo ben prima dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978. Hanno una valenza storica di sussidiarietà e di qualità, ben nota ai cittadini, quando ancora – possiamo dire – nello Stato non si ragionava in termini di welfare». Di qui la richiesta: «Queste strutture devono essere messe in condizione di poter espletare la loro funzione e la loro peculiare identità, che è diversa da quella del pubblico e da quella del privato for profit». I problemi economici e di sostenibilità dei servizi presenti in tutte le strutture, pubbliche e religiose, anche perché – ricorda don Manto – «non sono state aggiornate le tariffe dei Drg fin dalla loro introduzione nel 1994. E gli ospedali religiosi sono obbligati per legge a operare con gli stessi standard normativi e di personale degli ospedali pubblici». Vale a dire, per esempio, aggiornamento delle normative via via che vengono approvate (come quelle antincendio), organico in rapporto ai posti letto, presenza di personale assunto a tempo indeterminato: il tutto comporta spese maggiori e causa deficit. Tuttavia il deficit degli ospedali pubblici viene ripianato, a differenza di quello che capita a quelli religiosi. «Possiamo ricordare che in tante Regioni – puntualizza don Manto – fatto 100 il valore della produzione riconosciuta (e rimborsata con Drg), gli ospedali cattolici “costano” il 20% in più, mentre quelli pubblici fino al 90% in più». «Guardando soltanto ai costi, le Regioni dovrebbero chiudere gli ospedali pubblici e sostenere quelli religiosi» osserva con una punta di ironia don Manto: «In realtà quel che pesa è il deficit di programmazione regionale, la mancanza di modelli per riformare virtuosamente il pubblico e integrare in chiave sussidiaria la sanità religiosa».
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