mercoledì 30 maggio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​Davanti al prato che ospita il campo di volo di San Felice sul Panaro ci sono 30 persone in preghiera, rivolte verso la Mecca, guidate dall’imam della zona. È la preghiera per la morte di tre persone, Mohammed Azzar, 46 anni, marocchino, di Kumar Pawan, indiano di 29 anni, e dell’ingegnere italiano Gianni Bignardi, 62 anni, che stava compiendo le ultime verifiche sull’agibilità del capannone centrale della Meta, azienda di costruzioni meccaniche che riprendeva ieri l’attività nel polo industriale di San Felice sperando che fosse finalmente finita. Invece l’edificio ha ceduto di schianto alle 9,07 dopo la scossa di magnitudo 5.8 che ha devastato ulteriormente la Bassa modenese, duramente provata dal sisma del 20 maggio. Azzar era il responsabile del centro islamico in una zona dove l’immigrazione raggiunge un’alta densità, quasi il 12% della popolazione e dove la forza lavoro è sempre meno italiana.Finita la preghiera, dal gruppo si alza un uomo, in tuta da meccanico, amico della vittima.«Ci hanno costretto a tornare al lavoro - urla davanti a telecamere e taccuini - ma era pericoloso». La zona è presidiata dai carabinieri, la tensione sale, ma non degenera in rabbia. Ci sono cittadini di San Felice venuti a vedere il disastro.«Ma no, lui lavora da un’altra parte - ribatte Alessandro, figlio del titolare della Meta, rimasto lievemente ferito insieme ad altri due dipendenti - e noi abbiamo riaperto lunedì. L’azienda ha 30 dipendenti, ma l’attività stava riprendendo  gradualmente dopo le verifiche sull’agibilità che avevano dato esito positivo. Al momento della scossa lavoravano 13 persone, meno della metà. Il comune di San Felice ci ha dato tutti i permessi. C’era una parte che andava puntellata e noi l’abbiamo fatto. La Meta era in sicurezza, l’ingegnere rimasto ucciso stava facendo gli ultimi controlli. Ma chi si aspettava un’altra catastrofe? Adesso siamo disperati per i morti, è il momento del dolore».  Fuori dalla Meta prega anche un gruppo di indiani Sikh. Kumar Pawan veniva dalla regione del Punjab, aveva 29 anni e lascia la moglie e due figli piccoli, una di due anni e l’altro di 8 mesi. «Era in Italia da 11 anni e lavorava qua da 5 anni - racconta il cugino - il suo datore di lavoro domenica gli ha telefonato dicendogli che era tutto a posto e gli ha chiesto di tornare a lavorare. Ma per me era un capannone vecchio e pericoloso. Io lavoro in un capannone a Cavezzo. Sono crollati i pannelli, ma noi lavoratori ci siamo salvati perché era nuovo». Dopo il primo terremoto un cognato aveva proposto a Kumar di tornare per un po’ in India con lui, ma il giovane ha preferito restare. Era preoccupato per il futuro, non sapeva come avrebbe potuto crescere i figli. Anche la comunità indiana di San Felice conferma: «Kumar era stato chiamato dal proprietario perché la ditta doveva andare avanti. E lui - afferma Singh Jetrindra, rappresentante della comunità Punjab di San Felice - è andato a lavorare perché non poteva perdere il posto». «Ma nessuno di noi è stato forzato a tornare a lavorare - ribatte un collega italiano dei due operai defunti che vuole restare anonimo - avevamo ricominciato da poco e  gradualmente. Il 20 maggio il capannone era rimasto sì un po’ segnato, ma l’azienda ci ha assicurato che aveva fatto tutto quel che c’era da fare. Noi ci siamo fidati  e del resto cosa potevamo fare, smettere di lavorare come abbiamo smesso di dormire nelle nostre case?».Il ricordo della scossa è indelebile. «È stata molto lunga, - ricorda l’uomo -  per fortuna eravamo nella zona rimasta intatta, in fondo. È crollato un altro capannone qua vicini, per fortuna non c’era nessuno dentro. Ma ora tutta la zona industriale si fermerà».Che l’emergenza psicologica stia attanagliando il paese, che ieri dopo le due scosse più forti si è riversato nelle tendopoli, lo conferma il parroco don Giorgio Palmieri, che ieri ha dovuto lasciare per sicurezza il centro giovanile parrocchiale dedicato a don Bosco dopo la caduta di alcuni calcinacci. La prima preoccupazione è la casa.«È tornata la paura e anche chi si stava convincendo a rientrare nelle abitazioni non danneggiate, perlomeno ai piani bassi, ha cambiato idea. Ora sarà difficile convincerli, chi non trova posto in tenda starà in auto, in tenda o in camper. Anche noi adesso dormiremo all’aperto». E poi il lavoro, in una zona che traina diversi settore dell’economia italiana e che dopo la scossa del 20 maggio era convinta di potersi rialzare da sola, una volta contati i danni. Invece le due scosse di ieri hanno ucciso tre persone e un’illusione.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: