sabato 6 maggio 2023
Evacuata da Kabul in fretta e furia Fatima è in Italia e studia. «La comunità internazionale non può far finta che non esistiamo»
Fatima Haidari, 24 anni, ha studiato giornalismo e collaborava con la radio locale quando i taleban hanno riconquistato  il potere  «So di essere fortunata, le donne hanno perso ogni diritto»

Fatima Haidari, 24 anni, ha studiato giornalismo e collaborava con la radio locale quando i taleban hanno riconquistato il potere «So di essere fortunata, le donne hanno perso ogni diritto» - Web

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«Non dimenticherò mai le immagini dei corpi stesi sulla spiaggia di Cutro. Molti erano di donne e uomini afghani. Quando li ho visti ho pensato ai tanti e, soprattutto, alle tante rimaste indietro nei giorni caotici dell’evacuazione. Io sono riuscita a partire e ho potuto salvarmi. Altre non ce l’hanno fatta. E sono costrette a scegliere se morire a Kabul un po’ per volta o farlo, di colpo, nel Mediterraneo o ancora perdersi, prima sulle strade di montagna del Pakistan». I lunghi capelli neri di Fatima Haidari sfuggono dalla sciarpa colorata che porta appoggiata sulla testa, più un ornamento che un velo. Un segno di matita leggero sottolinea gli occhi, leggermente allungati, come tutte le ragazze di origine Hazara, la minoranza sciita nel mirino dei fondamentalisti. Sulle labbra un velo di rossetto. Fatima è timida, quando sale sul palco del Festival dei diritti umani di Milano si trasforma. Parla con voce appassionata, guardando il pubblico negli occhi, per «tutte le afghane che non possono farlo», afferma. Per quante i taleban, di nuovo al potere da ventuno mesi, costringono a scomparire dietro il burqa.


Ricorda le immagini del naufragio di Cutro:molti uomini e donne erano afghani costretti a rivolgersi ai trafficanti pur di partire

A 24 anni, Fatima era neonata durante il primo regime, caduto nel 2001. Appartiene, dunque, alla generazione femminile cresciuta negli anni della Repubblica, con il mito di una libertà possibile anche se terribilmente lontana. Una libertà che la giovane del remoto villaggio di Lal Sar Jangal si è impegnata a costruire attivamente. Ha iniziato a pascolare pecore e mucche a 8 anni per aiutare la famiglia che, però, le ha permesso di studiare, tanto da potersi iscriversi alla facoltà di giornalismo di Herat. Là ha creato e condotto il programma “Winner Women” sulla locale “Sahar Radio” in cui raccontava storie di coraggio al femminile. Per mantenersi, collaborava con il Jesuit refugee service (Jrs) e faceva la guida turistica: la prima donna a svolgere la professione. La visibilità mediatica l’ha fatta entrare nel radar dei fondamentalisti. Le minacce l’hanno costretta a lasciare Herat e a rifugiarsi nella capitale. Nemmeno questa, però, era un luogo sicuro quando i taleban hanno riconquistato Kabul, il 15 agosto 2021. Il nome di Fatima è finito su una delle liste di evacuazione. Ma raggiungere l’aeroporto, nel caos di quei giorni, è stato un incubo. Alla fine, Fatima, dopo una settimana di attese, pestaggi, fughe dai miliziani, ce l’ha fatta: un volo militare l’ha portata in Italia. Ora vive a Locate Triulzi, vicino a Milano, e studia alla Bocconi grazie ad una borsa di studio.

Ti piace la tua nuova vita, Fatima?

So di essere molto fortunata: abito in una struttura dello Stato e ho potuto prendere parte a un progetto di aiuto. Qui posso andare all’università mentre alle mie concittadine è proibito studiare oltre le elementari. Ma il mio Paese mi manca. Essere una rifugiata vuol dire vivere in un perenne stato di sospensione. Ho nostalgia della famiglia. Poi sono sempre preoccupata per le mie amiche che non sono potute fuggire. Mi dicono cose terribili. Capisco perché tanti siano costretti a rivolgersi ai trafficanti pur di partire. Spero che la comunità internazionale ascolti il loro grido. E pensi a dei corridoi umanitari o a dei permessi di viaggio legali.

Negli ultimi mesi, la stretta dei taleban si è fatta più soffocante, soprattutto nei confronti delle donne. Molte di queste cercano di protestare. La resistenza continua?

Direi che cresce. Nonostante la repressione, le ragazze organizzano cortei lampo, ogni volta in un luogo diverso, per protestare contro i divieti. Rischiano l’arresto ma lo fanno ugualmente. Non sono sole. E questo è un fatto nuovo. Padri, fratelli, cugini le sostengono.

Dove trovano il coraggio?

Nella disperazione. Le donne hanno perso ogni diritto, incluso quello di vivere. Dopo oltre quarant’anni di guerra, l’Afghanistan è un Paese di vedove. Ora che non possono più studiare né lavorare come manterranno i loro figli? Hanno solo due possibilità: vendere uno dei loro piccoli per salvare gli altri o prostituirsi, con il rischio di essere condannate a morte se vengono scoperte.

Che cosa può fare il mondo per aiutare le afghane?

Non dimenticarle. La comunità internazionale non può far finta che non esistiamo. Un mondo senza l’Afghanistan sarebbe incompleto. È, dunque, necessario che gli altri Paesi esercitino una continua pressione per far ragionare i taleban. Non mi rivolgo, però, solo ai governanti. Chiedo anche alle persone comuni: parlate delle afghane con i vostri amici, con i conoscenti. L’opinione pubblica ha un potere, non rinunciatevi. È anche nel vostro interesse. Se si consente a un regime di cancellare i diritti umani della metà femminile di un popolo, altri potranno imitarlo. E potrebbero non limitarsi solo alle donne.

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