sabato 3 giugno 2023
Rabbia e indignazione tutta al femminile per la fine di Giulia e del suo Thiago. Ma cosa ne pensano i maschi? Risponde Stefano Ciccone, sulla prima linea della battaglia per nuovi modelli relazionali
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Cosa può dire, un uomo, di quello che è avvenuto a Senago sabato scorso? Perché l’orrore e l’indignazione che in queste ore pulsano nei gruppi di quartiere, nelle università, nelle sedi delle associazioni e persino sui social network, sotto l’onda di ribellione dell’hashtag #losapevamotutte, sono solo femminili? Si invoca giustamente una presa di coscienza, nel giorno della Festa della Repubblica, del fatto che l’Italia non sia un Paese di diritti per le donne. E si chiede un cambiamento culturale che dovrebbe partire dal basso, cominciando ad essere costruito coi bambini nelle scuole. Ma le donne non possono esserne le sole protagoniste. Gli uomini servono, più che mai. Chi ne è convinto da anni è Stefano Ciccone, presidente di Maschile plurale, un’associazione che dal 2007 ormai si occupa di promuovere una cultura che superi il concetto abusato e spesso frainteso di “patriarcato”, liberando piuttosto le relazioni dalle logiche del machismo e del sessismo che troppo spesso portano come conseguenza proprio alle violenze. Senza troppo successo, a dire il vero, perché del cambiamento che gli uomini dovrebbero compiere (qualunque esso sia) nessuno parla e in pochi, silenziosamente, si occupano: «Resta assente dal dibattito pubblico, non rappresentato da movimenti e mobilitazioni collettive, fuorviato dalle vulgate psicanalitiche secondo cui il modello maschile è in crisi e gli uomini hanno perso autorità, con buona pace di chi tenta di dimostrare che un nuovo modello non è affatto una minaccia, ma un’occasione di arricchimento».

Insomma, gli uomini non sono tutti mostri.

Non lo sono affatto. Ci sono due tentazioni legate alla vicenda di Giulia che bisognerebbe scongiurare: la prima è proprio quella di dire che il suo assassino è un mostro, un matto, un deviante, giustificando in qualche modo quello che ha fatto con una patologia o – peggio ancora, e si sta facendo – con l’ingenuità disarmante della sua vittima. La seconda è quella, al contrario, di trasformare questo terribile femminicidio in un fatto sociologico: tutti gli uomini sono così, è colpa degli uomini. Se come prima cosa riconosciamo che Alessandro non è il matto e il deviante, che Giulia si era innamorata di lui perché davvero in passato era stato simpatico, generoso, rassicurante, amorevole, allora dobbiamo anche riconoscere che quest’uomo incarna un modello iscritto nella normalità. E che la violenza, anche quella più estrema, nella normalità può trovare le sue radici.

Parliamo di “normalità” allora, di questo modello maschile considerato normale.

Come associazione noi siamo presenti con gruppi di incontro in una ventina di città italiane, spesso facciamo incontri formativi nelle scuole. Un paio di settimane fa eravamo in una prima media, sollecitavamo i bambini a parlarci di modelli familiari e di relazioni con l’altro sesso, quando uno di loro dice: “Io vorrei una donna che mi lasci in pace”. Sentiamo spesso ripetere questa risposta tra gli adulti e i giovani adulti, che arrivi da un undicenne denota quanto sia radicato il modello maschile attuale: la volontà degli uomini tendenzialmente è quella di avere delle relazioni che non li vincolino, ma che loro ugualmente possano controllare e gestire. Si tratta di relazioni-non relazioni: l’uomo cerca libertà a partire dalla certezza che la donna stia lì, ferma, sotto il suo controllo, con una disponibilità oblativa e accudente tutta dedicata a lui. Il momento di frattura, così tragicamente rappresentato nella vicenda di Senago, è quando la donna sfugge a questo controllo e a questa manipolazione assolutistica: Giulia ha incontrato l’amante, Giulia ha chiesto conto del tradimento, Giulia ha minacciato di allontanare Alessandro di casa. E forse, ancor prima, Giulia era rimasta incinta: una terza persona, cioè, entrava a pieno titolo nella relazione creando ancora più vincoli dal punto di vista del giovane. Così la violenza spesso si scatena perché una donna trova lavoro, perché acquisisce la sua indipendenza economica, perché mantiene i rapporti con la sua famiglia o ne instaura di nuovi con colleghi e amici. Sfugge al controllo prestabilito.

Come si scardina questo modello ripartendo da un’altra normalità? È il lavoro che provate a fare come associazione, in rete con poche altre...

È difficilissimo. In primo luogo perché questo modello è così profondo e radicato da risultare invisibile: non riusciamo cioè, come uomini, a riconoscere il limite di questo modo di concepire la relazione-non relazione con la donna perché lo abbiamo introiettato. Non a caso qualsiasi altro modello viene sminuito anche a livello sociale: un bambino che piange, o che è particolarmente sensibile, è una “femminuccia”; un giovane papà che decide di usufruire del congedo parentale è un “mammo”; un padre separato che fatica a incastrare la gestione dei figli con la ex è alternativamente o solo una “vittima” o solo un “carnefice”; la stigmatizazzione di certi stereotipi e commenti sul corpo delle donne sono “esagerazioni”. E anche una certa nuova tendenza psicanalitica di stampo neolacaniano, che pure un cambiamento nei modelli lo sottolinea, insiste sul fatto che l’uomo “non è più quello di una volta”, che è in crisi, che ha perso la sua autorità e la capacità di dominarsi. Come se ci fosse una nostalgia per i “vecchi uomini”. Come se esistesse solo quel modello. Così però si innesca un cortocircuito, a cui contribuiscono molto anche i media.

Cosa intende?

Che si fa un discorso pubblico solo sulla crisi e sulla frustrazione degli uomini, non sul desiderio di cambiamento che pure in una parte del mondo maschile è maturato e sta maturando. E in questo modo si dà voce solo a quella frustrazione e al vittimismo, non al cambiamento positivo che pure esiste nelle esperienze individuali di molti uomini. Il cortocircuito è tra il discorso e la realtà, che non viene rappresentata. Le donne in trent’anni di mobilitazione per i propri diritti sono riuscite a costruire un discorso di cambiamento anche pubblico: rivendicano ruoli nuovi che hanno acquisito, sono rappresentate. Per gli uomini manca questa esperienza collettiva, non siamo riusciti a costruirla e non c’è, non la vediamo. È il momento di farci sentire.

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