venerdì 28 settembre 2012
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​Per la Corte dei Conti rappresentano il "nuovo modello" del decentramento, in quanto consentono alle Regioni di utilizzare strumenti di lavoro privatistici e tendere a livelli di efficienza altrimenti inaccessibili. Vero, in molti casi. In altri, qualsiasi funzionario di una delle venti regioni italiane vi dirà che le società partecipate servono ad aggirare i vincoli del patto di stabilità, ad assumere dipendenti che il bilancio regionale non potrebbe permettersi, a maneggiare derivati (vietati all’amministrazione pubblica)… I loro "fini elusivi" sono noti al Parlamento; il decreto legislativo 118 ha disposto non a caso delle norme più restrittive al "capitalismo regionale" esploso in questi decenni. Dalle municipalizzate alle società in house, passando per aziende speciali, fondazioni, consorzi, spa… un’evoluzione talmente rapida che l’ultimo rendiconto della Corte dei Conti parla ancora di «fenomeno poco noto». L’Unione delle province parla di 3127 enti strumentali delle sole Regioni nel 2009, quasi duemila dei quali (1947) sono società partecipate, concentrate soprattutto in Emilia-Romagna (368). Cosa siano realmente e a cosa servano lo chiediamo a Marco Nicolai, docente di finanza straordinaria all’Università di Brescia ed ex direttore generale e presidente di Finlombarda, la holding con cui la Regione Lombardia finanzia i progetti di sviluppo. Perché le partecipate sono considerate il cavallo di Troia della spesa pubblica?Perché alcune amministrazioni le impiegano per aggirare i propri vincoli normativi, penso al reclutamento e alla gestione del personale o all’acquisizione di beni e servizi, o le usano per eludere vincoli finanziari, come, per esempio, il patto di stabilità interno. Non mancano poi le partecipate che, esulando da ambiti istituzionali e da aree di competenza del settore pubblico, svolgono attività improprie nel settore dei servizi e persino nel manifatturiero. Perché le loro funzioni non possono essere svolte dagli uffici regionali?Possono garantire snellezza funzionale, specializzazione professionale e organizzativa, in molte aree e molte funzioni dove il pubblico, nella sua organizzazione tradizionale, è ampiamente inefficiente. È il caso delle centrali di acquisto, del project management delle nuove infrastrutture o della valorizzazione del patrimonio immobiliare, o ancora della gestione finanziaria...Chi le controlla?Se ieri i controlli erano pochissimi oggi si sono infittiti. Gli ultimi anni hanno stratificato una pluralità di norme a tutela della concorrenza e trasparenza sul mercato o della economicità e contenimento della spesa. Una massa di vincoli, a volte anche incongruenti, che mortifica le più efficienti di queste società senza riuscire a evitare però che le meno efficienti continuino a fare disastri...Cosa cambierà con il federalismo?Premetto che le partecipate regionali sono piccola cosa nei numeri, 12-15% delle partecipate pubbliche, e nei valori, 2,2%  dell’attivo patrimoniale e 1,9% del fatturato. Lo stato centrale è ancora largamente protagonista per spesa, debito pubblico e imposizione fiscale, né gli mancano i "cavalli di Troia" o la scarsa trasparenza. Il federalismo poteva cambiare molto, ma ancora prima che veda la luce mi sembra che qualcuno abbia innestato la retromarcia e voglia celebrarne il funerale.
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