mercoledì 17 febbraio 2010
All’incontro di «Ristretti orizzonti» la proposta del senatore Marino per modificare la legge sul regime sanitario: «Le famiglie devono essere chiamate quando i reclusi stanno male». La mamma di Cucchi: non ce l’abbiano con le istituzioni, ma vogliamo giustizia.
  • SECONDO NOI: morti di tutti, non di partito 
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    «Lo Stato me lo ha portato via. Lo Stato me lo ha ridato morto. Spero che dicano tutta la verità. Non ce l’abbiamo con le istituzioni o con l’Arma, ma con una manciata di persone, in camice o in divisa, pagate dallo Stato. Vogliamo che siano giudicati da semplici cittadini». La signora Rita Cucchi non ama esporsi. A chiedere giustizia per il figlio Stefano finora s’era fatta coraggiosamente avanti la sorella Ilaria. Ma stavolta la donna non s’è risparmiata e ha voluto dire la sua sulla morte del figlio. Uno scandalo che sta squarciando la cortina di silenzi e omissioni su tante morti incomprensibili nelle carceri italiane. Con lei, stavolta, ci sono altre madri, padri, fratelli dei tanti Cucchi scomparsi in qualche cella in circostanze ancora da chiarire. Come Manuel Eliantonio, Marcello Lonzi, Aldo Scardella, Riccardo Boccaletti e tanti altri nomi presto dimenticati. Dal 1990 a oggi sono stati 1.027 i suicidi, 14.840 i tentati suicidi, 98.342 gli atti di autolesionismo. E il 2009 è stato l’anno record con 72 suicidi pari a 11,64 ogni 10 mila detenuti. Il tasso in assoluto più alto è stato nel 2001 del 12,52, pari a 69 suicidi. A chiedere verità, giustizia e un carcere diverso sono i promotori dell’incontro a Senato, l’associazione "Il detenuto ignoto" e il centro studi "Ristretti orizzonti". Qualcosa si può fare subito. Ignazio Marino, presidente pd della Commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, annuncia la conclusione della prima stesura dei risultati dell’indagine parlamentare su Cucchi. E promette modifiche legislative: «I medici che curano i detenuti – dice Marino – devono comportarsi come in qualsiasi altra circostanza: chiamare i familiari delle persone che stano male»: Così non è stato per Stefano Cucchi: «Se ci sono regolamenti che non consentono il contatto dei detenuti che stanno male con i loro familiari, sono sbagliati e vanno cambiati. Questo posso prometterlo. Se una persona si trova in carcere e si sente male deve avere una pronta assistenza». Come è successo, denunciano le famiglie dei detenuti scomparsi in circostanze poco chiare, per i loro congiunti. Manuel Eliantonio, per esempio. «Manuel è morto nel 2008 a 22 anni nel carcere di Marassi – dice la madre Maria – ufficialmente perché era un tossico e aveva inalato gas butano». Nell’ultima lettera, il giorno prima della sua morte, non trapelano propositi suicidi. Dice cose diverse: «Mi ammazzano di botte almeno una volta a settimana... mi riempiono di psicofarmaci... ti voglio bene, stai in forma, scrivimi». Le foto della salma lo mostrano gonfio e col naso rotto. Terribile anche la storia di Aldo Scardella, 24 anni, suicida il 2 luglio 1986 al Buoncammino di Cagliari. Era stato arrestato nel dicembre 1985, accusato di una rapina con morto nel suo quartiere sulla base di elementi inconsistenti: è alto un metro e settanta come uno dei rapinatori, il passamontagna viene abbandonato vicino casa sua. Lo arrestano impedendogli di avvertire i genitori che lo apprenderanno dalla tivù. Poi finisce in isolamento. «Per quattro mesi gli è stato negato il contatto col suo legale – dice ora l’avvocato Rosa Federici – e l’autopsia rivela la presenza di metadone, ma nessuno gliel’ha mai prescritto». Dieci anni dopo vengono arrestati i veri colpevoli. A 25 anni da quei fatti la famiglia aspetta ancora la proclamazione postuma d’innocenza e la verità sul suicidio ma l’inchiesta rischia di essere di nuovo archiviata. Poi c’è Marcello Lonzi, 29 anni, che muore l’11 luglio 2003 nel carcere di Livorno. La versione ufficiale è: collasso cardiaco, dopo essere caduto battendo la testa. Ma la madre non ci crede: l’autopsia sulla salma parla di otto costole rotte e due fori nel cranio. Riccardo Boccaletti, 38 anni, viene recluso a Velletri, nel 2007, in attesa di giudizio per reati di droga. Accusa inappetenza, vomito, astenia, diventa anoressico, perde 30 chili in pochi mesi. Ma non scattano gli interventi specialistici adeguati alla gravità del caso. Muore il 24 luglio 2007. Il caso Cucchi è dunque solo l’ultimo. «Stefano non può riposare in pace – dice la sorella Ilaria – perché ancora non ci ridanno il suo corpo. Il dolore per la sua riesumazione è stato inutile perché siano ancora in attesa della Tac senza la quale i nostri medici non sono in grado di stabilire ciò che da sempre sosteniamo, che è morto per le percosse ricevute. Affrontare questa storia è un dolore, ma fa male soprattutto dover combattere per avere giustizia, che dovrebbe essere doveroso in uno Stato di diritto».
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