domenica 10 aprile 2016
A Livorno 140 morti e nessun colpevole. Mattarella: «Verità». La presenza della nebbia resta un giallo irrisolto. L’avvocato Palermo: «Quella sera navi Usa scaricavano armi. E in porto c’erano israeliani e palestinesi».
Moby Prince, 25 anni di misteri
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La nebbia, i traffici d’armi, i palestinesi. Centoquaranta morti e nessun colpevole. Venticinque anni dopo, la strage del Moby Prince resta un enigma. Toccherà alla commissione parlamentare d’inchiesta istituita a dicembre tentare di scoprire cosa accadde il 10 aprile 1991. Un aiuto potrebbe arrivare dalle scoperte dell’avvocato (ed ex magistrato) Carlo Palermo, che nel 2006, come legale dei figli del comandante del traghetto Ugo Chessa, chiese di riaprire l’inchiesta. La procura di Livorno lavorò per 4 anni, ma nel 2010 domandò l’archiviazione spiegando così la tragedia: «Improvvisamente la nave entrava in un banco di nebbia che coglieva totalmente impreparata la plancia del traghetto ». Secondo i pm, fu quindi un errore umano, favorito dalla ridotta visibilità, a far schiantare il Moby Prince contro la petroliera Agip Abruzzo. Ma è una conclusione che stride con un documento esibito da Palermo durante la sua recente audizione in commissione.  «Condimeteo, ore 22,27 (cioè due minuti dopo la collisione, ndr), visibilità 5-6 miglia» c’è scritto sul registro dell’Avvisatore Marittimo. «Non mi fu difficile trovare quel documento – spiega Palermo ad Avvenire– eppure all’epoca nessuno lo acquisì». Diversi testimoni dissero che la nebbia c’era. Ma il tenente Cesare Gentile, che quella sera fu tra i primi a uscire in mare su una motovedetta della guardia di finanza, testimoniò in tribunale che alle 22.30 c’era «una chiarezza impressionante e il mare era calmo e senza nebbia». Disse anche un’altra cosa, Gentile (lo scrisse anche in un rapporto, mai arrivato in procura): mentre usciva vide scaricare armi da una nave americana a un’altra, mai individuata. Quella notte, tra porto e rada, c’erano almeno sette navi Usa, alcune militari e altre 'militarizzate'. Una di queste, la Vallant 2, si allontanò subito dopo la collisione comunicando il falso nome 'Theresa' a una fantomatica 'ship one'. «Anche le navi americane risultavano dal libro dell’Avvisatore. Ma nessuno lo esaminò – continua Palermo - eppure sarebbe servito per avere una fotografia del porto in quei momenti». L’ex magistrato ha tuttavia ricostruito lo scenario: «Quella notte il porto era utilizzato per fini militari. Trovai carte che dimostravano le movimentazioni d’armi, senza autorizzazioni né controlli da parte delle autorità italiane». Si era alla fine della Guerra del Golfo, l’esercito americano stava riportando materiale bellico nella grande base di Camp Darby. «Di solito le armi venivano caricate su chiatte che poi risalivano il canale dei Navicelli. Quella sera era chiuso, ma le armi venivano scaricate lo stesso. È plausibile che ci fosse un’operazione ignota in corso». Forse per dirottare altrove quei carichi: «In porto c’era il peschereccio 21 October, che poi finì nel caso Ilaria Alpi perché sospettato di aver trasportato armi in Somalia: un traffico secondo l’Onu riconducibile al siriano Al Kassar». Una vecchia conoscenza, per Palermo. «Mi imbattei in lui già nel 1982, quando a Trento indagavo proprio sui traffici di armi. Arrestai un suo socio e saltò fuori che Al Kassar da una parte portava avanti i suoi commerci illegali, dall’altra era un informatore degli americani». L’ambiguo siriano riforniva i gruppi terroristici palestinesi. Ecco perché, davanti alla commissione, l’ex magistrato ha parlato di un possibile «segno lanciato da mani israeliane», andato oltre le intenzioni. «Suggestioni», secondo i pm. Piste investigative ignorate, insiste Palermo. «C’è la possibilità che il porto sia stato usato per azioni filo palestinesi, dunque non è assurdo pensare che in campo ci fossero gli israeliani. Qualcuno segnalò la presenza di presunti agenti del Mossad. Ma restano ipotesi, perché nessuno indagò. E perché si tratta di fatti che toccano segreti di Stato che ancora oggi ostacolano la scoperta della verità». La famiglia Chessa ha sempre pensato che qualcosa, all’improvviso, avesse costretto il traghetto a cambiare bruscamente rotta, fino a centrare la petroliera. Magari proprio quella piccola imbarcazione che il comandante dell’Agip additò subito dopo l’impatto: «Ci è venuta addosso una bettolina». Impossibile confonderla con un traghetto, di mole ben superiore. E se il Moby fosse finito in mezzo a un incidente già in corso? Alcuni di coloro che videro la nebbia la definirono 'strana', i periti parlarono di vapore o fumo forse provocati da un guasto a bordo. Una circostanza che pare collimare con la testimonianza di due cadetti dell’Accademia navale, che da terra videro strani bagliori levarsi dalla petroliera ben prima dell’arrivo del Moby. Senza contare che una perizia presentata dalla famiglia Chessa affermò che il Moby colpì l’Agip non uscendo dal porto, bensì dopo un inspiegabile tentativo di rientro a Livorno. Difficile capire oggi cosa accadde. Ma secondo Palermo la commissione d’inchiesta può provarci. «L’indagine parlamentare non ha i limiti dell’azione penale, dunque potrebbe compiere passi verso la verità. Sempre che si trovi la disponibilità di quegli organi dello Stato che finora non hanno collaborato». Ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso lo stesso auspicio: «Mi auguro che la ricerca della verità possa essere pienamente soddisfatta. Esprimo la mia vicinanza a tutti i familiari. Il loro dolore resta indelebile e negli anni ha alimentato l’aspirazione civile a una autentica rappresentazione dei fatti, capace di scrutare oltre la nebbia che contribuì alla tragedia».
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