
Proteste della rete "No Cpr" nei mesi scorsi a Bologna - Fotogramma
Un ragazzo corre al buio, addosso ha solo un paio di boxer. Sono vestiti invece e in tenuta antisommossa gli agenti che lo inseguono e che, quando raggiungono l’uomo, lo spingono in un angolo con gli scudi. Poi le persone scompaiono ma si sentono rumori forti, metallici e le grida di qualcuno che urla «No, no». È il video choc che arriva dal Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, e che è stato pubblicato nel giorni scorsi dalla rete No ai Cpr. La scena terribile si interrompe ma, dopo una pausa, riparte anche peggio: in un altro filmato in cui lo stesso ragazzo appare a terra, forse incosciente e con la testa e il volto coperti di sangue.
Un caso eccezionale? Non secondo l’associazione che sostiene di ricevere segnalazioni simili almeno una volta alla settimana. Proprio nei giorni scorsi, tra l’altro, il Cpr di Gradisca era diventato teatro di proteste per le condizioni di vita, la qualità di cibo e una sospetta epidemia di scabbia che si sarebbe diffusa nella struttura.
«Il Cpr di Gradisca è un luogo di tortura, annichilimento e violenza – ha commentato ieri il deputato di +Europa Riccardo Magi – Andava chiuso, invece questo inferno è il modello che il governo Meloni vuole esportare in Albania». «La risposta alle proteste per le condizioni igieniche non può essere i manganelli. Il governo deve chiarire» gli fa eco Angelo Bonelli di Avs, mentre la dem Debora Serracchiani rincara: «Il centro va chiuso per le condizioni di vita e lavoro estreme».
Se dalla parte delle opposizioni cresce l’indignazione per il presunto pestaggio, la questura smentisce. E dà la sua versione dei fatti risalenti al 5 giugno: «Durante una rivolta con incendi appiccati dagli ospiti - si legge in una nota - il personale della Polizia di Stato, con il supporto della Guardia di Finanza, è intervenuto per ripristinare l’ordine. Gli operatori sono stati oggetto di lanci di bottiglie, frutta e altre suppellettili e hanno dovuto fronteggiare azioni coordinate di disturbo. In questa fase gli ospiti sono stati fatti rientrare nelle rispettive camere, come documentato da un video che mostra un soggetto, a torso nudo, accompagnato nella propria stanza». Un momento che sarebbe distinto rispetto alla seconda immagine che si riferirebbe a una caduta accidentale che ha riguardato lo stesso ospite.
La polemica, però, non si placa e si aggiunge come l’ennesimo tassello di un mosaico complicato, quello dei Cpr, che risulta a dir poco compromesso. In teoria i dieci centri di detenzione attivi sul territorio nazionale, a cui si aggiunge quello albanese di Gjader, dovrebbero essere destinati al trattamento di cittadini stranieri senza permesso di soggiorno, in attesa di essere rimpatriati nel Paese d’origine. Non si tratta di carceri ma nella pratica le limitazioni della libertà personale e le condizioni di vita al loro interno li trasformano nel peggiore dei penitenziari. Secondo quanto denunciato negli anni dalle associazioni di settore, i centri – affidati tramiti appalti a gestori privati e per i quali manca il rispetto di standard nazionali condivisi – rappresentano un buco nero dei diritti in cui gli spazi sono sovraffollati e sporchi, tanto che spesso si trasformano in focolai di epidemie; manca personale qualificato e assistenza medica e i casi di autolesionismo e proteste si moltiplicano, oltre a un abuso di psicofarmaci che si fa sempre più frequente nel tentativo di gestire situazioni di disagio psichico.
Per questo appena dieci giorni fa la Corte costituzionale, sollecitata dalle ordinanze di varie autorità, ha avviato la pratica per decidere sulla questione di legittimità costituzionale sui modi del trattenimento dei Cpr, previsto non da una legge primaria ma da una circolare ministeriale. Secondo alcuni giuristi questa logistica sarebbe in contrasto con l’articolo 13 della Costituzione che prevede che la libertà personale possa essere limitata solo nei casi e nei modi previsti dalla legge. Sotto esame anche l’estensione della durata massima del trattenimento fino a 18 mesi, introdotta nel 2023, ma che potrebbe risultare un punto critico.
Oltre all'aspetto giuridico e sociale, si pone anche un tema di opportunità. Nonostante gli alti costi di gestione del sistema, che secondo l'ultimo report promosso da ActionAid nel biennio 2022-2023 ammontava a 39 milioni, i Cpr riescono a rimpatriare solo una minima parte degli stranieri trattenuti, circa il 10 per cento del totale, molti dei quali possibili solo grazie ad specifici accordi bilaterali con certi Paesi di provenienza.